Impermeabile a critiche e tentativi di smontarla, la Coppa Davis continua a offrire incontri e storie eccezionali, in cui il tennis diventa lo scenario di qualcosa di molto più grande.
La sconfitta ad Amburgo non ha cancellato l’entusiasmo dei tifosi australiani
 
Di Riccardo Bisti – 18 settembre 2012

 
Pasas lo anos, pasan los jugadores
Es por un sueno que vamos a luchar
Vale la pena la Roja es lo mas grande
El publico que cante gritando sin parar

 
E’ la prima strofa della canzoncina preparata l’anno scorso dagli spagnoli per la finale contro l’Argentina. Un motivetto semplice e orecchiabile che ottiene l'effetto sperato: fa venire la pelle d’oca, anche se non sei spagnolo. Perché trasmette in poche parole la bellezza della Coppa Davis. Le hanno provate tutte per sminuirla, cancellarla, creare qualcosa di alternativo. Ma non ce n’è. Hanno detto che sente il peso dell’età, che i migliori non la giocano e che è un fastidio per i giocatori. La verità è che la Davis è la manifestazione dove il tennis diventa uno sport di squadra e l’atmosfera diventa bellissima, da brividi. E’ l’unica con i rituali che profumano di storia e non cambieranno mai, come la cerimonia-sorteggio della vigilia, la solenne esecuzione degli inni nazionali, lo scambio dei gagliardetti…ma soprattutto l’amore della gente. Troppo giornalismo specializzato – chissà perché – tende a sminuirla, forse perché non è semplicissima da seguire, forse perché il primo turno si gioca a febbraio e la finale a novembre. Ma queste peculiarità rappresentano (anche) la forza dell’unica manifestazione foriera di emozioni, sorprese, passione, storie e atmosfere uniche. In un torneo del Grande Slam è difficile avere un vincitore a sorpresa. 29 delle ultime 31 prove sono state vinte da tre soli giocatori, con le sole eccezioni di Del Potro e Murray. In Davis no, le sorprese sono dietro l’angolo. Dicono: “La Davis non rappresenta la vera forza tennistica di una nazione”. E’ verissimo, ma deve essere necessariamente così? Ci sono una sessantina di tornei l’anno dove le gerarchie vengono (spesso) rispettate. Ma non c’è il pathos o il coinvolgimento che offre la vecchia coppona.
 
Non c’è un weekend che non offra storie eccezionali, fonte di ispirazione per raccontare qualcosa di diverso. A partire dal pubblico, magari i 14.000 illusi che a Buenos Aires hanno provato a spingere in finale l’Argentina. Se vedi una partita da quelle parti, stai certo che dall’atteggiamento del pubblico non capirai mai il punteggio. Loro cantano, ballano, suonano tamburi e agitano ombrelli (!). Riescono a rendere piacevole una partita di Carlos Berlocq, instancabile guerriero sconfitto con onore da Tomas Berdych. “Correvo da tutte le parti, ma non sentivo la stanchezza grazie a voi” ha detto il veterano di Chascomus. Un amore così grande che – se ferito – può diventare cattivo. Come i fischi a Del Potro, reo di non essersi immolato alla causa. Qualche migliaio di chilometri più in là, Kei Nishikori ha deciso di provarci ugualmente nel match contro Israele. Nella prima giornata ha alzato bandiera bianca per problemi alla spalla, ma con il Giappone sotto 2-1 è sceso in campo contro Dudi Sela, dando battaglia nervosa per 4 ore e 31 minuti, vincendo 7-5 al quinto nonostante i crampi e 102 errori gratuiti. “In campo trasmettevo grandi emozioni – ha detto il cucciolo di Shimane – per me è inusuale. Ma fai parte di una squadra, e questo significa qualcosa. Per davvero”. Un’impresa che però è stata vanificata dalla sconfitta di Go Soeda, battuto in quattro set da Amir Weintraub, numero 223 ATP che ha deciso di rallentare l’attività internazionale “Perché non guadagno un soldo”. Gli è capitato di parlare con tennisti senza classifica ATP che portano a casa 80-90.000 euro l’anno giocando solo le gare a squadre. E allora ha pensato: “Perché devo sbattermi in giro per il mondo per molto meno?”. Ma la Davis è un’altra cosa, tieni duro anche in preda ai crampi. Se poi arriva la pioggia che ti consente un break per chiudere il tetto, beh, è ancora meglio. E la Stella di David, dopo la clamorosa semifinale di qualche anno fa, torna nel Gruppo Mondiale.
 
E’ la Davis del Brasile, che dopo nove anni di frustrazioni simili all’Italia (con sei play-off perduti) torna nell’elite grazie a Bellucci, Dutra da Silva e un ottimo doppio. A San Josè do Rio Preto c’era anche Guga Kuerten a benedire il match contro la disastrata Russia, durato appena due giornate. E finalmente i carica hanno potuto mostrare le loro magliette celebrative, tra cori da stadio e fiumi di champagne. Come noi, anche loro sperano di trovare Croazia o Austria al primo turno. E’ la Davis dei tedeschi, che restano a galla rispedendo in Serie B l’Australia di Tomic e Hewitt, che proprio non riesce a risollervarsi. I canguri erano avanti 2-1 dopo la seconda giornata, ma la Germania si è salvata grazie a Florian Mayer e all’improvvisato eroe Cedrik Marcel Stebe. Nella prima giornata aveva perso da Tomic, poi non ha lasciato scampo a un davisman di razza come Hewitt. Un capolavoro che ha dato ragione a Patrick Kuhnen, che aveva lasciato fuori Haas e Kohlschreiber (quest’ultimo tra le polemiche). Ma è anche la Davis degli sconfitti: non solo l’Australia, ma anche Russia e Sudafrica. I russi – dopo un decennio d’oro e due titoli – stanno pagando la scelta di “svendere” al Kazakistan alcuni dei migliori talenti. Ad Astana, con i biglietti a 4 dollari, i kazaki d'adozione si sono presi la Serie A battendo i “cugini” dell’Uzbekistan, mentre i ragazzi di Tarpischev sprofondano in Serie B. E non sarà facile tirarsi su. Così come il Sudafrica, che continua a pagare i “capricci” di Kevin Anderson. Il numero 1 sudafricano ha scelto di non andare in Canada per motivi economici, giocando le finali del World Team Tennis. Non deve essere condannato per questo. La Davis non è un obbligo per i professionisti. E’ bellissima, ma chi non ne vuole far parte è legittimato a farlo senza che debba subire punizioni e/o squalifiche. La vera punizione, per chi decide di non esserci, è la scelta di non vivere qualcosa di unico. E’ qualcosa che devi sentire dentro. O ce l’hai o non ce l’hai. E peggio per te se non ce l’hai.
 
Ps. Non abbiamo citato – volutamente – Roger Federer. Lo svizzero ha fatto il suo dovere, come (quasi) sempre, ed ha evitato la retrocessione alla Svizzera vincendo battendo Haase e De Bakker ad Amsterdam. Con uno “scudiero” come Wawrinka, Roger ha la grande chance di vincere l’unico grande trofeo che gli manca. Fino ad oggi, non ci ha mai provato seriamente. Solo quest’anno è tornato a giocare il primo turno dopo tanti anni, ma gli è andata male. Con 17 Slam e una valanga di tornei nel palmares, può trovare il coraggio di focalizzarsi sulla Davis e provare a fare come Borg (che nel 1975 la vinse quasi da solo), come Becker, come Sampras e come tanti campioni che hanno scritto pagine indimenticabili dell’Insalatiera. Ad oggi, RF non c’è ancora riuscito. Dopo la vittoria in Olanda ha detto che la Davis non rientra tra i suoi obiettivi primari. Ha fatto capire che gli interessa di più stare con i compagni che altro. Ma noi non molliamo e ci auguriamo, tra 12 mesi, di scrivere un altro articolo di questo tenore incentrandolo su un campionissimo di 32 anni. Chissà.

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