Rivoluzione in arrivo nel Campionato Universitario: la NCAA vuole ridurre il format e giocare un super tie-break al posto del terzo set. Reazione compatta dei giocatori: “E’ una follia!”.
Nicole Gibbs, campionessa NCAA in carica

Di Riccardo Bisti – 18 agosto 2012

 
La NCAA, il campionato universitario americano, è un ottimo viatico per la costruzione di buoni giocatori. L’ultimo esempio è John Isner, diventato professionista a 22 anni dopo aver difeso a lungo la franchigia dell’Università della Georgia. Ma adesso può cambiare qualcosa, e non in positivo. I vertici della NCAA, infatti, hanno proposto di cambiare il format del punteggio. Al posto del terzo set si giocherebbe un super tie-break a 10 punti, come accade nel doppio. Una regola che potrebbe rovinare l’effetto benefico del campionato universitario. Sul web si è scatenata una valagna di reazioni, quasi una rivolta popolare. E tanti buoni giocatori emersi da questa realtà hanno detto la loro. Il primo a intervenire è stato Bradley Klahn, che via Twitter ha scritto: “Non si può vendere il programma NCAA come un trampolino di lancio per il circuito professionistico con un tie-break al posto del terzo set”. Questa è la proposta più eclatante, ma ce ne sono altre. Per esempio, si vuole eliminare il palleggio di riscaldamento, ridurre a cinque minuti il tempo tra un singolare e un doppio e ridurre da 90 a 60 secondi il riposo ai cambi di campo. L’obiettivo, ovviamente, è accorciare la durata delle partite e fornire un prodotto più appetibile per le televisioni. “Accorciando il format, il programma NCAA sarà in grado di attrarre più pubblico e portare un maggiore interesse per il tennis”. La rivoluzione è stata naturale, spontanea. E’ intervenuta anche Nicole Gibbs, campionessa NCAA in carica. “Io gioco a tennis per il tennis, non per la TV o per il pubblico. Giocare un tie-break al posto del terzo set compromette l’integrità del gioco!”.
 
In tempi di social network sfrenati, è nato un gruppo su Facebook, creato da Evan King (Università del Michigan) e Bon van Overbeek (Florida). Lo hanno chiamato “Official-Against the changes to NCAA Tennis”, e in pochi giorni ha superato addirittura i 7.000 membri! Al fianco dei "ribelli" si è schierata anche la federtennis americana. Tramite un comunicato, la USTA ha detto di “essere consapevole delle proposte di cambiamento proposte dal comitato NCAA. Lavorando con la ITA (Intercollegiate Tennis Association), la USTA sta preparando una lettera congiunta di opposizione a questi cambiamenti. La lettera verrà consegnata al comitato prima della prossima riunione, prevista per il 20 agosto”. La scelta NCAA sembra fare acqua da tutte le parti. E’ vero che nel circuito ATP è stato ridotto il format del doppio, ma si trattava di una specialità moribonda, in via di estinzione. Non che sia rifiorito, ma perlomeno vivacchia. Il singolare non è certo in crisi, e così facendo ci rimetterebbe tutto il tennis americano. La NCAA rischia di non essere più un serbatoio di buoni giocatori, perché gli aspiranti professionisti non giocherebbero un campionato che non c’entra nulla con il tennis “vero”.
 
Volendo credere alla teoria che i match sono troppo lunghi, la soluzione proposta non va bene. Si vuole curare la malattia uccidendo il paziente. La NCAA diventerebbe un campionato simile al World Team Tennis, una baracconata ottima per promuovere il gioco ma non certo i giocatori. Ma la funzione del tennis universitario dovrebbe essere un’altra. Qualcuno pensa che l’opinione dei giocatori sia ancora importante. Se i vari giocatori usciti dalla NCAA si opponessero, chissà se le modifiche entreranno in vigore. Oltre a John Isner (che ha già "twittato" sull'argomento), ultimamente sono emersi Steve Johnson, Bradley Klahn, Mallory Burdette, Nicole Gibbs e il colombiano Robert Farah. Secondo i critici, la NCAA non ha alcuna credibilità sul piano televisivo perché le finali non trovano alcuna copertura TV addirittura dal 2008, sebbene i match non siano mai andati oltre le 3 ore. Il tennis universitario ha tanti appassionati, è una delle poche realtà in cui uno sport individuale diventa un incontro a squadre, ma così facendo si toglie ogni fascino alla sfida. Viene svilito il senso dell’intero campionato. Un tennista che si abitua a giocare il super tie-break come può prepararsi per gli sforzi fisici e mentali del circuito, dove vincere partite di tre set (se non di cinque…) è il pane quotidiano? Semplice, non lo fa. E allora potrebbero non emergere più tanti campioni come James Blake, Lisa Raymond, i gemelli Bryan, Rajeev Ram, l’indiano Somdev Devvarman e altri ancora. Tutta gente che, per almeno un semestre, ha lottato sui campi universitari.