L’INTERVISTA – Diego Nargiso, vincitore di Wimbledon Junior nel 1987, racconta la sua esperienza e cosa può comportare una vittoria del genere. E avvisa Quinzi dei rischi che si possono correre…
Diego Nargiso alza il trofeo di Wimbledon Junior. 26 anni dopo, Gianluigi Quinzi potrebbe imitarlo
Di Riccardo Bisti – 6 luglio 2013
L’Italia del tennis esulta e sogna. Sogna ed esulta. Il merito, ancora una volta, è di Gianluigi Quinzi. Battendo il quotato Kyle Edmund, il marchigiano ha centrato la finale di Wimbledon Junior contro il coreano Chung. In 126 edizioni, l’Italia ha vinto un solo torneo di singolare a Wimbledon, proprio nel torneo junior. Correva l’anno 1987, quello della vittoria di Pat Cash. Tra i ragazzi vinse Diego Nargiso, lo scugnizzo che negli anni a venire ci avrebbe regalato tante emozioni, anche se il suo talento gli avrebbe consentito di vincere ancora di più. Oggi Diego dirige la International Tennis Academy (ITA), la cui base è il Tennis Club Soleil di Beausoleil, a due passi da Monte Carlo. “Le cose vanno bene: sono molto soddisfatto dei risultati di Marie Temim, ormai la migliore della zona, e dell’italiano Gianluca Mager. Ha fatto benissimo in Serie A2, quest’estate giocheremo un po’ di tornei Futures e il challenger di Genova per verificarne il livello”. Ma Diego sa bene che i risultati di Quinzi hanno riportato d’attualità il successo di 26 anni fa, quando battè Jason Stoltenberg e fu premiato dalla Duchessa di Kent. Nessuno può spiegarci il presente e ipotizzare l’immediato futuro di Quinzi meglio di lui.
Diego Nargiso, campione di Wimbledon. Mica male…
E’ un ricordo bellissimo. Fu una vittoria cercata e voluta. Proprio come Quinzi, avevo 17 anni e quindi ero al primo anno da Under 18. Ero stato aggregato al team degli “adulti” dal mio coach dell’epoca, Roberto Lombardi, e sull’erba stavo giocando alla grande. In Australia, su quattro tornei, ne avevo vinti due con una finale e una semifinale. E andai bene anche nei tornei di preparazione. Insomma, ero molto accreditato. Oltre a me, i favoriti erano Stoltenberg, Woodbridge e Byron Black. Poi c’erano Korda, Courier e Wheaton, ma giocavano meglio su altre superfici.
Come ha vissuto quell’esperienza?
Ricordo un paio di aneddoti. Con Roberto Lombardi decidemmo di non giocare il Roland Garros, dove avrei potuto fare bene perché ero reduce dai quarti al Bonfiglio. Ma eravamo convinti della bontà dell’occasione e pensammo di andare sull’erba qualche settimana prima. Nell’ultimo torneo di preparazione mi venne il timore di arrivare troppo stanco, allora giocai una partita senza tensione. Non dico che giocai a perdere, ma il mio obiettivo era arrivare fresco a Wimbledon. Roberto, con il suo carattere particolare, si arrabbiò moltissimo. Due settimane dopo però, fu costretto a darmi ragione. Vinsi il torneo giocando il mio tennis “normale”, senza perdere un set. Credetemi, quella era l’erba vera. Soltanto Agassi e pochi altri potevano permettersi di palleggiare da fondocampo. Ma anche Andre, ogni tanto doveva venire a rete.
Dopo quel successo, dove pensava che sarebbe arrivato?
Non lo nascondo: io puntavo a diventare numero 1 al mondo. E tutti gli addetti ai lavori mi vedevano almeno tra i primi 10. C’erano tutti gli indizi: a 17 anni ero già numero 150 ATP, avevo vinto tante partite “vere”. Anche Nick Bollettieri mi aveva pronosticato un grande futuro.
Che succede quando si vince Wimbledon Junior? Come cambia la vita?
Tantissimo. Nello stesso 1987 fui sommerso di proposte. Mi “tirarono la giacchetta” da tutte le parti. Arrivarono ProServ e IMG, i due colossi dell’epoca, proponendomi di rappresentarmi. Mi contattò un coach di livello come Gunther Bosch, dicendomi che mi aveva segnalato Ion Tiriac e si propose di allenarmi. Arrivarono i primi contratti importanti: chiusi un accordo con Fila e un altro con Scaglia, azienda di racchette che all’epoca andava per la maggiore. Pensa come può vivere queste cose un ragazzo di 17 anni. Ma non mi creò problemi: chiusi bene il 1987, e l’anno successivo fu il migliore da professionista. Feci terzo turno a Wimbledon battendo Amos Mansdorf (n. 13 ATP) perdendo da Woodforde, e lo stesso allo US Open. Mi ritrovai ben presto numero 67 ATP. I problemi arrivarono dopo…
Che tipo di problemi?
In tutto il mondo, ma soprattutto in Italia, è facile passare dalle stelle alle stalle. Le sirene erano troppo affascinanti e non ho saputo resistere. Per “sirene” intendo le convocazioni in Coppa Davis, le wild card agli Internazionali d’Italia. Gunther Bosch mi disse che non avrei dovuto giocare in Davis fino a quando non fossi stato il numero 1 d’Italia, e che avrei dovuto giocare a Roma soltanto quando la classifica me lo avrebbe consentito. Aveva ragione, sbagliai, e me ne assumo le responsabilità. Paradossalmente, sono stato sfortunato. A Roma 1988 battei un top 10 come Emilio Sanchez, creandomi l’illusione di essere pronto per giocare a certi livelli. Avessi perso al primo turno delle qualificazioni, avrei fatto un passo indietro, giocando più challenger, facendo un passo alla volta. Ma in quel momento i risultati mi davano ragione. Purtroppo la stampa non mi aiutò: basta poco per passare da “fenomeno” a “pippa”. Batto Emilio Sanchez e tutti a dire che Nargiso è il nuovo Panatta, il nuovo McEnroe…poi perdo dal numero 30 e tutti a dire: “Forse ci sbagliavamo, forse non è così buono…". Sono cose che a 19 anni pesano. Cosa può pensare un ragazzo che legge il giornale e trova tutto e il contrario di tutto?
Che idea si è fatto del Fenomeno Quinzi?
L’ho visto giocare solo un paio di volte, non posso esprimermi al 100%. Gioca un tennis potente, moderno, adatto al tennis di oggi. Mi piace perché ha sicurezza e tranquillità mentale. E’ molto sicuro di sé, convinto del suo potenziale. A 26 anni dal mio successo, gli pioverà addosso molta pressione. Sono curioso di vedere cosa succederà: non tanto al ragazzo e alla sua capacità di gestire le aspettative, quanto a chi gli sta vicino. Con Roberto Lombardi avevo fatto un lavoro di questo tipo: magari non ci trovavamo benissimo come carattere, ma è meglio un approdo sicuro che andare a destra e sinistra, facendosi allenare da gente che non conosci. Credo che Gianluigi debba continuare sulla strada intrapresa e scelga persone giuste, con l’esperienza necessaria per non ascoltare le sirene come Davis, Roma, wild card…
C'è un errore che ha commesso e che consiglierebbe a Quinzi di evitare assolutamente?
Mi piace fare l’esempio di un mio coetaneo: Renzo Furlan. Lui partì piano, con un mucchio di sconfitte. Prima i satelliti, poi i challenger, poi gli ATP sul veloce. Perdeva ma non si abbatteva, ricordo un paio di 6-1 6-1 consecutivi negli Stati Uniti, eppure Riccardo Piatti continuava a portarlo in giro. Così facendo si è fatto le ossa e quando è arrivato aveva le spalle larghe e la giusta esperienza. E ha fatto la carriera che ha fatto. Io sono esploso in 18 mesi, poi quando sono arrivate le prime sconfitte e ho perso fiducia, si è creata una forte insicurezza. Ho raccolto 12-15 primi turni di fila nei tornei ATP e tutto questo mi ha destabilizzato. Ho imparato una cosa: il giocatore deve sempre vincere, a qualsiasi livello. Se perdi l’abitudine alla vittoria, sono dolori. Per questo consiglierei a Quinzi di non fare il passo più lungo della gamba. Il rischio di una serie negativa è sempre dietro l’angolo.
Ma come sarebbe stata la sua carriera senza quel successo a Wimbledon?
Bella domanda! Vediamo…di sicuro non ci sarebbe stata tutta quella risonanza, sarei arrivato in ritardo…ma in termini di risultati, credo che sarebbe stato meglio non vincerlo. Le cose devono avvenire con la giusta progressione. Però la mia carriera ha rispecchiato fedelmente la mia persona e la mia personalità. Io sono stato uno da grandi exploit, ma anche risultati inferiori alle attese. Vi assicuro che ho sempre giocato per la passione e l’amore per il tennis. Ero fatto così: preferivo la volèe vincente al duro scambio da fondo, il pubblico del centrale di Roma al challenger in Estonia. Certo, avrei potuto essere più 'ordinato', ma non sempre è stata colpa mia. Fino ai 25-26 anni non ho avuto un allenatore che mi volesse bene sul serio. Secondo me, un ragazzo giovane deve avere al suo fianco qualcuno che nutra affetto sincero nei suoi confronti. Qualcuno che pensi al suo bene senza pensare all’opportunità. Se trovi una persona così intorno ai 17-18 anni, hai trovato chi ti porta in alto. Mi auguro di cuore che per Quinzi sia così.
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