Nadal e Wimbledon, un padre che chiede al figlio di evitare un sacrificio, e il figlio che disubbidisce: quando lo sport ribalta una storia biblica

Abramo. Anche chi non frequenta la Bibbia ne avrà sentito parlare. Così come di Ulisse. I due iniziatori di grandi viaggi, nella Bibbia e nell’Odissea, i due patriarchi dell’infinito cammino della ricerca interiore. Entrambi legati per sempre ai rispettivi figli, Isacco e Telemaco, con tutta la dimensione simbolica di tali rapporti.

Proprio ad Abramo e Isacco mi ha fatto pensare un evento tennistico di inizio luglio. I fatti sono noti. Il guerriero Rafa Nadal, matador di ogni guaio fisico, resiliente fino all’impossibile, aggettivo a lui sconosciuto; lui per il quale spesso, soprattutto nelle sfide contro Djokovic, “lo sport diventa quasi un fatto mistico, un rituale sadomaso, una lotta a chi soffre di più” (cit. Direttore); ebbene, Rafa durante il primo set dei quarti di Wimbledon, contro il giovin Fritz, a metà del primo set si infortuna seriamente agli addominali. Menomato, sofferente, dopo un consulto medico decide di rimanere in campo. “Nulla di nuovo sotto il sole”, direbbe Qohelet. Alla fine vince in cinque set: di nuovo, “nulla di nuovo”… Prima della semifinale si ritirerà, perché anche lui in fondo è umano.

Ma un’inquadratura di pochi secondi, subito dopo il consulto medico, trasforma la cronaca in storia, in epos biblico. Sebastià, padre di Rafa, dalle tribune cerca lo sguardo del figlio e con segni inequivocabili gli fa segno di ritirarsi. Accompagnando la gestualità con uno sguardo preoccupato e insieme rimproverante: “A tutto c’è un limite, Rafa, basta!”. Quest’ultimo nemmeno lo guarda: occhi bassi, smorfia di dolore, passettini vagamente nevrotici, concentrazione tutta nel rientro in campo, mente e cuore al prossimo 15. Il corpo seguirà.

Sebastià-Rafa, novelli Abramo-Isacco. Mi riferisco a una delle pagine più misteriose della Bibbia: il “sacrificio di Isacco” da parte di Abramo, per ordine di Dio (Genesi 22). Sacrificio solo in una brutta traduzione, perché in realtà – come lo definisce la tradizione ebraica – si tratta della “legatura di Isacco”. Abramo lega il figlio sull’altare, ma poi le cose vanno ben altrimenti rispetto a un assurdo sacrificio umano. Brano che, più lo si medita, più ci sfugge di mano. Arduo sovrapporre parole nostre a quelle bibliche, non solo al pensiero di quanti ben più autorevolmente si sono cimentati con questo racconto (si pensi solo a Kierkegaard in Timore e tremore), ma per il suo abisso impenetrabile. Dio mio!, esclamazione per una volta non fuori luogo…

Non lo farò neppure qui. Suggerisco, accenno, per lasciarvi il piacere di interpretare il testo biblico alla luce del tennis, così diabolico, così divino. Solo un aiuto, tratto da un commovente passo di un commentario rabbinico che cerca di riempire gli spazi vuoti dello scarno testo biblico:

Abramo legò Isacco sull’altare, sopra la legna, e stese la mano. Stendeva la mano per prendere il coltello e dai suoi occhi scendevano lacrime, e le lacrime provenienti dalla compassione paterna cadevano sugli occhi di Isacco. E sgorgarono lacrime da Abramo e caddero su Isacco, e da Isacco caddero sulla legna, che subito fu inondata dalle lacrime. E piansero gli angeli, dal cielo. Tutte le lacrime caddero sul coltello, tanto che fu fermato e non ebbe forza sul collo di Isacco.

Quante volte abbiamo visto tennisti e tenniste piangere in campo, dopo una vittoria o una sconfitta (quanto avrà pianto Fritz quel giorno?). Ma ci sono lacrime che nessuna telecamera, per fortuna, documenta. Lacrime visibili o solo interiori. Lacrime che consentono anche ai nostri eroi della racchetta di ritornare, rinnovati, in campo. Lacrime che si oppongono a ogni assurdo sacrificio umano. Lacrime paterne e filiali. E allora, Sebastià è Isacco, Rafa è Abramo: quel giorno Rafa, disobbedendo al padre, ha rischiato ed è andato per la sua strada, senza sacrificarlo a un’assunzione di responsabilità che spettava solo a lui, il figlio. Perché viene l’ora in cui i figli diventano padri dei loro padri. Magari piangendo insieme. In attesa del prossimo match.