Andy Murray gioca la sua miglior partita, batte uno stanco Federer e si prende l’oro olimpico. Il festeggiamento sobrio, l’abbraccio al bambino emozionato, i pensieri cattivi che volano via.
Il commovente abbraccio tra Andy Murray e un bambino sconosciuto.
Un abbraccio dai mille significati.
Di Riccardo Bisti – 6 agosto 2012
Ci sono tanti modi per accogliere una vittoria. Andy Murray ha scelto il migliore. O forse gli è venuto spontaneo. Le emozioni lo hanno travolto e gli hanno impedito di sdraiarsi, urlare, rotolarsi per terra, sporcarsi con erba spelacchiata mischiata a terriccio. Quando ha tirato l’ultimo ace e ha inciso nella storia il 6-2 6-1 6-4 a Roger Federer, si è lasciato condurre da un dolce flusso di coscienza che lo ha fatto muovere come un automa. In quei gesti robotici, tuttavia, c’era la grande umanità di un ragazzo che ha profonde ferite nel suo passato. Non parliamo delle quattro finali Slam perse o della nomea di “gamba zoppa” dei Fab Four, una specie di Ringo Starr senza diritto di voto. Dopo ogni vittoria, anche dopo il trionfo olimpico, manda un saluto al cielo. Lo fa con aria sofferente, senza platealità. Forse pensa a quella mattina del 13 marzo 1996, quando lui e il fratello Jamie scamparono a uno dei delitti più efferati della storia, quando l’ex capo scout Thomas Hamilton fece irruzione nella Primary School di Dunblane e scaricò la frustrazione di uomo represso su una classe intera, uccidendo 16 bambini e una maestra prima di suicidarsi. Forse, in quell’attimo di raccoglimento, Murray pensava a Joanna, Victoria, Emma, Melissa, Charlotte, Kevin, Ross, David, Mhari, Brett, Abegail, Emily, Sophie, John, Hannah e Megan. Bambini di sei anni morti senza un perché insieme alla maestra Gween Mayor. Un dolore intimo, che resta dentro per tutta la vita. E di cui è difficile parlare. In centinaia di interviste e conferenze stampa, Andy ha sempre mantenuto uno stretto riserbo sulla faccenda. Dice che era troppo piccolo per rendersi conto di quello che era successo e che preferirebbe dimenticare. Non è così, non potrebbe mai essere così. Per ammetterlo, ha scelto una biografia uscita nel 2008, “Hitting Back”, in cui ha raccontato di quanto abbia dovuto lottare contro la consapevolezza che avrebbe potuto essere una delle vittime. “Sono stati uccisi alcuni amici fraterni – ha scritto il neocampione olimpico – di quel giorno conservo solo alcuni flash. Eravamo in classe a cantare alcune canzoni”. Murray conosceva bene Hamilton. Aveva fatto parte di un suo gruppo di scout e ricorda di come mamma Judy gli abbia dato qualche passaggio in macchina. “La cosa più assurda è che lo conoscevamo. Era stato in macchina con mia mamma. E’ strano pensare di avere un assassino nella tua auto, seduto accanto a tua madre…forse è per questo che voglio dimenticare. E’ brutto sapere che veniva dal Boys Club, luogo dove andavamo a divertirci. Il mio cervello non è riuscito a far fronte all’idea che fosse un assassino. E che io avrei potuto essere uno di loro”.
Per capire Murray, il suo atteggiamento, le sue fisime, non si può uscire da lì. Ma il 5 agosto 2012 è cambiato qualcosa. Non tanto per gli ace, le palle break annullate, le bastonate scagliate sul campo di Federer. No. Murray si è liberato del ricordo quando, dopo aver abbracciato il suo clan (mamma Judy, papà William, la fidanzata Kim e tutti gli altri), stava tornando in campo. Si è sentito chiamare da dietro. Era un bambino che lo aveva rincorso e moriva dalla voglia di abbracciarlo.”Andy, sono qui!””. Lui si è fermato e si è concesso. Nelle braccia di quel bambino, forse, gli è sembrato di ritrovare l’innocenza dei 16 amici crivellati da Hamilton. E’ stato un attimo di una dolcezza infinita, una catarsi, una rinascita. L’attimo che ha dato un senso ai sacrifici di un ragazzo dalle qualità nascoste dietro l’apparente durezza, i lineamenti severi, la dentatura agghiacciante. Atteggiamenti figli del massacro di Dunblane, ma anche della separazione dei genitori (i cui rapporti, peraltro, sono ancora civilissimi). Poi la scelta di andare in Spagna ad allenarsi, presso l’Accademia di Sanchez-Casal, dove ha scoperto che nel tennis bisogna sudare ma non ha imparato una parola di spagnolo. O i future spagnoli senza pubblico né prize money. Senza contare le difficoltà nei rapporti interpersonali. La love story con Kim Sears è nata a suon di SMS, poi si è interrotta perché il buon Andy passava troppo tempo a giocare alla Playstation. Ma la figlia di Nigel, coach di Ana Ivanovic, ha saputo capirlo. E ha deciso di stargli vicino, dargli una mano a far emergere tutte le sue qualità. La maturazione è stata lenta, piena di ostacoli. “Posso piangere come Roger, ma non posso vincere come lui” singhiozzò dopo la finale dell’Australian Open 2010. Un anno dopo fu sculacciato da Djokovic e poi non vinse una partita per mesi. E intanto gli inglesi gli rompevano le scatole, strumentalizzandolo a seconda della direzione del vento, forse infastiditi per una frase goliardica, pronunciata da teenager. “Se l’Inghilterra del calcio perde io sono contento”.
Poi, dopo aver salutato il volenteroso Maclagan ed essersi concesso un periodo di autogestione, ha capito che doveva fare qualcosa. E ha chiamato Ivan Lendl, uno che 30 anni fa aveva i suoi stessi problemi. Dopo quattro finali Slam, rimontò McEnroe al Roland Garros 1984 e divenne Ivan il Terribile. L’oro olimpico vale meno punti di uno Slam, ma nella testa dei giocatori non è così. Tutti volevano vincere, tutti sapevano che fra 30 anni ci si ricorderà più dell’oro olimpico che del vincitore dello Us Open. E allora il modo con cui Andy ha vinto questo torneo è la sua consacrazione. Finalmente è uscito dal guscio. Nell’ora e cinquantasei minuti in cui ha maciullato Federer è parso di vedere il Djokovic versione 2011. Implacabile al servizio, devastante con i colpi da fondo, concentrato come non mai. Dopo un inizio balbettante (ha rimontato da 15-40 nel primo game), ha preso a giocare alla grande. La fuga è iniziata al quinto game, quando una gran risposta e un passante di rovescio hanno sigillato il primo dei cinque break. E’ stato l’inizio di una serie terrificante, in cui ha vinto nove giochi di fila, inchiodando lo svizzero fino al 6-2 5-0. La partita avrebbe potuto girare nel terzo game del secondo set, quando ha cancellato sei palle break da padrone. Una addirittura con una volèe di puro istinto, baciata dagli dei del tennis. Nel game successivo, Federer è stato avanti 40-15 ma è entrato in confusione fino a cedere di nuovo il servizio con un doppio fallo. Il break decisivo è giunto nel quinto game del terzo set, con l’ennesimo rovescio incrociato che Federer non è riuscito a contenere. Il punteggio avrebbe potuto essere ancora più severo se lo svizzero non avesse cancellato (con orgoglio) altre due palle che avrebbero mandato lo scozzese sul 5-2. Quando Murray è andato a servire sul 5-4 avrebbe potuto provare le vertigini, invece ha sparato due ace e ha mandato in visibilio i 14.000 del Centre Court, in un tripudio di Union Jack e aria intrisa di storia. Federer era lontano dal 100%. Non è riuscito a recuperare appieno dalle 4 ore e mezzo di venerdì contro Del Potro, era più lento negli spostamenti, ma avrebbe perso lo stesso. Avrebbe vinto un set, si sarebbe concesso un tie-break, ma contro il Murray Olimpico non c’era nulla da fare. Il resto è materiale da mettere nell’album dei ricordi, nella cornice digitale, o in entrambi. L’emozione ha preso il sopravvento. Voleva ridere? Voleva piangere? Non lo sappiamo, non lo abbiamo capito. Per tutta la durata della premiazione non ha aperto bocca. Si è gustato l’aria balsamica e ventosa del Centre Court, ha tenuto dentro di sé il vortice di emozioni e si è preso il boato del pubblico quando il rituale olimpico, prima in francese e poi in inglese, lo ha accompagnato sul gradino più alto del podio. Salire lassù, nello scalino più alto, era un modo per avvicinarsi ai 16 amici di Dunblane. Emozioni che non si possono descrivere e non si possono nemmeno trasmettere con uno sguardo o un sorriso. E intanto i pensieri negativi sono volati via, sprigionati dalle note di “God Save the Queen”.
OLIMPIADI – SINGOLARE MASCHILE
Finale per il primo posto
Andy Murray (GBR) b. Roger Federer (SUI) 6-2 6-1 6-4
Finale per il terzo posto
Juan Martin Del Potro (ARG) b. Novak Djokovic (SRB) 7-5 6-4
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