A 65 anni è scomparso Roberto Perrone, grande firma del Corriere della Sera e poi del Corriere dello Sport, per decenni ha seguito il tennis raccontandolo con maestria e ironia
Aeroporto JFK di New York, un lunedì pomeriggio di tanti anni fa. Squilla il cellulare, sul display compare il nome di Roberto Perrone. «Mi spieghi che c…o vuol dire ‘grasso ma simpatico?’. Quel ‘ma’, me lo spieghi?». E quell’episodio si era poi trasformato in un piccolo tormentone personale.
Roberto Perrone, che è mancato ieri a 65 anni dopo una malattia breve e feroce, era così. Ti leggeva, ti curava, non ti lasciava passare niente che suonasse strano al suo raffinatissimo radar. Quella volta aveva letto una mia intervista a Ivan Lendl, titolare della definizione di cui sopra, e da uomo non proprio snellissimo (lo so, Roberto, scusa, non mi viene niente di meglio…) si era ironicamente e autoironicamente incazzato con il sotoscritto. Incazzato, proprio, non arrabbiato o indispettito, perchè Perri, come lo chiamavano amici e colleghi, era uno da emozioni vere, decise, se qualcosa non gli andava bene te lo diceva in faccia. E poi ti abbracciava, ti faceva i complimenti per un pezzo o te lo stroncava. Sottile, acutissimo e geniale nella prosa, capace di grandi amicizie e di assolute antipatie nella vita. Scrittore e giornalista fra i migliori della sua generazione, per tanti anni al Corriere della Sera, poi al Corriere dello Sport, il tennis, oltre a tanti altri sport (nuoto, calcio, altre discipline olimpiche) lo ha seguito per decenni, trasformandosi in un punto di riferimento, sempre informatissimo, vicino alle persone e alle cose che contano. Scriveva rapido, preciso, armonico, divertente e scrupoloso. E letale – ma mai gratuitamente – nelle polemiche. Un gourmet: a tavola, e nella vita, deciso a gustarsi tutto quello che c’è di buono. Anche intransigente, a volte spigoloso, ma sempre capace di allargare uno di quei sorrisi dolcissimi e panoramici, l’arcobaleno dopo una tempesta. E prontissimo a passare una serata al ristorante in cui offriva lui, se vedeva il giovane collega in ambasce economiche. Era talmente bravo che si era trasformato in scrittore di successo, con libri dedicati al calcio, ma anche alla cucina, ai bambini, infine alle avventure giallistiche di due investigatori, Annibale Canessa e Attilio Toscano. Lascia la moglie Emanuela e i figli Cecilia, Rachele e Giovanni, a cui vanno le condoglianze de Il Tennis Italiano. (Ciao Roberto, spero di non aver scritto troppe belinate, come avresti detto tu).