Se
parlar male di un giocatore è peccato, parlar male di un giocatore
ritirato
è delitto
Se
parlar male di un giocatore è peccato, parlar male di un giocatore
ritirato
è delitto. Se il giocatore è una giocatrice, ex top ten, diventa
crimine
da pena capitale. Proviamoci lo stesso: è giusto farlo, se si dice la
verità.
Zina Lynna Garrison giocava maluccio a tennis. Impugnava a metà manico
una ruffiana Wilson bianca con grip fluorescenti e corde variopinte.
Quando si apprestava a servire, raccolta
nel suo metro e sessanta abbondante di fisico tracagnotto (superava ampiamente
i 60 chili) pareva cadere in trance. Fissava per otto-dieci secondi nel
nulla e poi batteva
una palla più che discreta: il suo colpo
più insidioso. A rete aveva imparato il mestiere ma nessuno ha mai
scritto
l’apologia della Zina-volée. Attaccava forsennatamente ma priva di
tocco
felpato, anzi, agitando il racchettone con poca grazia, soprattutto quando
tentava smorzate o approcci col taglio “sotto”. Verso fine carriera,
smessi i panni fucsia di un’azienda di abbigliamento minore, fi
rmò con
la Reebok, che decise di sperimentare su di lei i gonnellini in similpelle
nera che oggi affliggono gli spettatori di Serena Williams.
Sorvoliamo sugli effetti: basti sapere
che, prima che esplodesse Arantxa Sanchez, c’era chi aveva trovato il
Michael Chang al femminile. Tra il 1981 e il 1997 la nostra ragazza, nata
in tempi difficili per i neri a Houston, nel Texas, arraffò quattordici
titoli in singolare e venti in doppio, eliminando Steffi Graf a Wimbledon
nel
1990 per giocare la sua unica finale Slam.
Come abbia fatto, con colpi da fondo artigianali e vergati con presa da
asilo nido, e atletismo sommario, a restare tanto a lungo tra le migliori
e a vincere qualcosa come quattro milioni e mezzo di dollari non si sa.
Ciò che aveva era più di quanto sfoggiassero gran parte delle
altre, e
questo bastava:
oggi non basterebbe. Riguardando i nastri
di quel famoso Championship londinese di quindici anni fa, però, qualcosa
si capisce: Helena Sukova e Monica Seles, vittime di Zina sulla strada
della finale, giocavano meglio. Tiravano più forte. Facevano più
punti.
Il fatto è che, se le mettevi solo la testa sotto l’acqua, lei
tratteneva
il respiro e tornava a farsi sotto. La ceca finì per perdere la pazienza
e farsi prendere dalla paura di vincere, Monica si fece irretire da tanti
chop con rimbalzo atipico. Per non parlare di Steffi, angosciata dalle
squallide vicende extraconiugali di babbo Peter. Toccò a Martina
ristabilire
le gerarchie.
Dopo esserci attirati le antipatie di tutto
il movimento tennistico americano, sicché Zina lo rappresenta
ufficialmente
in qualità di capitano di Fed Cup, proviamo a riparare. La signora
Jackson,
tale perché sposò un uomo d’affari nei primi anni
’90, diede il nome
a una fondazione che si occupa di bambini orfani e di persone disagiate.
Un impegno vero e sentito, portato avanti per lunghi anni e ancora seguito
personalmente. La città di Houston, per le sue molteplici e generose
opere
benefiche,le ha intitolato un giorno dell’anno, il 12 aprile. Zina
perdette
i genitori in giovane età e, sull’esempio di Althea Gibson prima e
di
Arthur Ashe dopo, ebbe il notevole merito
di sdoganare il tennis dei neri: se oggi
nascono e crescono tanti giocatori afroamericani bisogna ringraziare anche
lei, che girava il mondo con disinvoltura quando ancora vigeva l’apartheid
e, diciamolo chiaro, quando certi Sudisti suoi compaesani speravano tanto
che venisse fuori un’altra Tracy Austin bionda ed eterea come Candy Candy.
Non era facile portare il proprio nome a testa alta, quando si avvertiva
un vergognoso pregiudizio negli sguardi altrui. Per tutti questi motivi
Zina ha più che compensato il torto (che torto non è) di aver
vinto molto
più del dovuto.
Oggi però, pensionata, che non si dedichi
alle esibizioni! (Federico Ferrero)
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