L’OPINIONE – Messo in difficoltà dalla crescita di Indian Wells e dai privilegi perduti, il torneo di Miami è in difficoltà. Passar alla terra verde potrebbe essere un’idea di rilancio a basso costo. 
A Miami si gioca su un cemento denominato “Laykold”
 
Di Riccardo Bisti – 25 marzo 2013

 
I tempi sono cambiati. Anni fa, il "Lipton" di Miami era una seria minaccia per i tornei del Grande Slam. O meglio, per l’Australian Open. Prima che il torneo australiano diventasse il gioiello di oggi, aveva un mucchio di problemi. La lontananza, prima di tutto, ma anche una collocazione in calendario infelice. Arriva troppo presto, con appena due settimane di tornei sulle gambe, e spesso i giocatori non sono al top. Si è parlato di spostarlo a febbraio, magari a marzo. Ma non è possibile, perchè a gennaio i ragazzini sono ancora in vacanza e possono svolgere attività (raccattapalle, ma non solo) che non potrebbero garantire in altri periodi. L’Australian Open ha saputo togliersi la fama di “gamba zoppa” dello Slam ed oggi è adorato dai giocatori. E nel frattempo il divario tra gli Slam e il resto del circuito si è fatto sempre più grande. Ne paga le conseguenze Miami, che anno dopo anno si è visto scivolare via la nomea (effimera) di quinto Slam. Ormai Indian Wells è superiore in tutto: capienza (l’anno prossimo il divario crescerà ancora), montepremi e pubblico. E pensare che in California si gioca in mezzo al deserto, mentre Key Biscayne è a due passi da uno dei luoghi più turistici del globo. Il 2013 è l’annun horribilis del Sony Open: oltre ai fattori appena elencati, il parco-giocatori è fortemente indebolito dall’assenza di Roger Federer e Rafael Nadal. Se il forfait di Rafa ci poteva stare (anche se è giunto nei modi e nei tempi sbagliati), quello di Federer è doloroso e umiliante. Quando lo svizzero ha diramato il suo calendario per il 2013, Miami mancava. Lo ha scartato, preferendo allenarsi in vista della primavera. Un’onta terrificante, e non basta il ritorno di Serena Williams per attirare pubblico. Se poi aggiungiamo il forfait di Victoria Azarenka e le immediate sconfitte di Del Potro e Wozniacki (finalisti a Indian Wells), il quadro diventa sconfortante. E non sorprende che la prevendita dei biglietti sia stata deludente.
 
Nel 1985, Miami aveva ottenuto lo speciale status di torneo a 96 giocatori, ibrido tra gli Slam e tutti gli altri. E stato il primo torneo ATP-WTA a occupare due settimane in calendario. Oggi non ha più questo privilegio e soffre una collocazione che non è più così ideale, schiacciato tra il maxi-evento di Indian Wells e il passaggio Davis-terra battuta. E allora cosa si potrebbe fare per rilanciare Miami? L’idea arriva da Paul McNamee, ex direttore dell’Australian Open, che per un decennio ha combattuto contro l’avanzata di Miami negli anni di massimo splendore: cambiare superficie, passando dal cemento alla terra (verde). “L’idea mi è venuta leggendo un articolo sul torneo – racconta McNamee – il giornalista si lamentava per la scarsa capacità di esprimersi in inglese dei giocatori ispanici. Pensai: ‘Ma stai scherzando? Miami è la capitale ispanica degli Stati Uniti. Se c’è un luogo negli USA a non essere anglocentrico, è proprio questo!’. E allora ho pensato che Miami potrebbe giocarsi sulla terra battuta”. Sembra una follia, ma merita un ragionamento. In questo momento, Miami è in crisi di identità. Non potrà mai essere grande come lo Us Open e sta soffrendo l’avanzata di Indian Wells. Cambiare superficie potrebbe essere un’ottima mossa di marketing a costo zero. Si potrebbe giocare sulla terra verde, il mitico “Har-Tru” molto diffuso da quelle parti. Pur essendo una superficie amata dai giocatori (è confortevole ed è leggermente più veloce della terra rossa, quindi non scatenerebbe le ire di chi ama il cemento), non è più utilizzata nel circuito ATP. Per tre anni (dal 1975 al 1977) vi si è giocato lo Us Open, poi il proliferare dei campi in cemento ha fatto lentamente sparire i vari tornei di Pinehurst, Orlando, Atlanta, il challenger delle Bermuda e – in campo femminile – lo storico appuntamento di Amelia Island oltre a Ponte Vedra Beach. Oggi si gioca su terra verde il solo torneo di Charleston (foto in home page).
 
Indian Wells sarebbe la grande chiusura della stagione sul cemento (Australia, medio oriente, nord America), mentre Miami potrebbe inaugurare la stagione su terra che poi culminerebbe nel Roland Garros. Giocare su terra verde renderebbe il passaggio dal cemento al rosso più graduale e meno traumatico. “Non dico che Nadal avrebbe giocato questa settimana – dice McNamee – perchè il suo corpo ha davvero bisogno di una pausa, ma sospetto che un campo in terra avrebbe reso il torneo più interessante ai suoi occhi, e un eventuale forfait sarebbe stato ancora più difficile”. Nadal a parte, l’idea sta in piedi. Difficilmente avranno il coraggio di portarla avanti, però Miami deve fare qualcosa. L’alternativa è assistere impotenti alla crescita di Indian Wells e veder crescere il distacco. Nel 2013, il BNP Paribas Open ha accolto 382.227 spettatori: l’anno prossimo, con la costruzione di un secondo stadio da 8.000 posti, saranno superati di slancio i 400.000. Lo scorso anno, a Miami erano andati in 326.131, ma probabilmente quest’anno ci sarà un calo (peraltro già evidente dando un’occhiata alle tribune nei primi giorni del torneo). Passare alla terra verde è una suggestione, una fantasia. Ma non chiamatela follia: potrebbe essere il modo per rilanciare un torneo in difficoltà.