Cosa è mancato a Shelton per battere Sinner e cosa il numero uno al mondo deve attendersi dalla finale con Zverev
Se nell’Età di Mezzo la sinistra veniva bollata come “mano del diavolo” e il mancinismo definito ricettacolo di “rovesciati” e “invertiti”, i secoli a venire hanno invece appurato che il fenomeno è culla di spiccata creatività, nonché di capacità intuitive, visive e spaziali superiori alla media. Per queste e altre ragioni, guardo a Ben Shelton come al più evoluto dei seguaci del ‘gioco contrario’.
Nel giovane statunitense convivono la follia di Leconte e il raziocinio di Muster, il tocco di Orantes e la potenza di Nadal, la frusta di Roche e il fioretto di McEnroe. È lui il prototipo riassuntivo, depositario di cotanta storia. Il tipo pericoloso che ha provato quest’oggi a distogliere Jannik Sinner da una meritata finale in terra d’Australia. L’ha fregato la fretta e una visione troppo risolutiva del gioco. Avesse unito alla genia tecnica un pizzico di normalità tattica il match avrebbe offerto al mondo racchettaro soluzioni ancora più funamboliche di quelle andate comunque in onda tra le righe di quell’Arena che del migliore dei mancini reca il nome.
Posso sbagliare ma non credo che contro Sinner, l’americano mirasse veramente al colpaccio, più verosimile è la sensazione che si sia prodigato, con appagamento, in una passerella di quei colpi che pacificano l’occhio con la bellezza del gioco. Jannik si è limitato a disegnare il campo in luogo e in largo ed è finita come sappiamo. Per il campione in carica il match clou non sarà una passeggiata di salute. Nulla di sinistro, stavolta, ma un marcantonio destrorso come Sacha Zverev, campione cristallino graziato da una possibile sfacchinata contro Djokovic e alla disperata ricerca del suo primo slam.