Matteo è un drago negli spostamenti lunghi, gli manca invece brillantezza, anche per ragioni di struttura fisica, su quelli brevi. Che sono utili soprattutto in fase d’attacco
A malapena l’arbitro sul Louis Armstrong di Flushing Meadows ha riassunto il dettaglio dei cinque set andati in onda tra Davidovich-Fokina e Matteo Berrettini, che un ‘din!’ sottile reclama dal cellulare la sua parte di attenzione. «Sto Berrettini…», mi scrive via whatsapp Ezio Scali, ex giocatore, grande lottatore e ora insegnante di valore,«…ogni volta ce fa ‘strigne’ come pochi ma poi la porta a casa!». Mi allega due emoticon con gocce di sudore in fronte, aggiunge tre puntini di sospensione e chiude con un «daje Mattè!» che non offre il fianco a dubbi. Il caro Ezio non sa che il match appena concluso tra il romano e l’iberico ha fatto lo stesso effetto su almeno tre quarti del Paese. «È veloce ma non è rapido… – replico di getto – …gli manca ancora il cambio di passo». La chiudo lì con l’abbraccione di rito e di rimando inforco la penna per dipanare il concetto appena spedito via sms, di pari passo alla mia narrazione sul cammino del nostro eroe in terra d’America. Un racconto che, dopo quanto visto sul centralone, non può esimersi dal tirare in ballo la mobilità. Per dire che nel tennis con «veloce» si allude allo spostamento medio-lungo in cui servono in successione: partenza, allungo, aggiustamento, arrivo, colpo. Una progressione in cui Matteo è un asso. Diverso dallo spostamento «rapido», quello richiesto nel tratto breve che richiede una fitta frequenza di appoggi ad alta reattività richiamando, dove serve, il fatidico cambio di passo, ultimissimo aggiustamento che concede la massima coordinazione in fase d’impatto. Riassumo dicendo che, se lo spostamento veloce ricorre per di più nelle fasi di difesa, a quello rapido ci si richiama per comandare lo scambio e giocare i cambi di ritmo. Aggiungo che nella mobilità a corto raggio i brevilinei come Schwartzman sono favoriti, mentre i marcantoni come Matteo possono riscontrare difficoltà, a meno di non avere bacino basso alla Murray o alla Hurkacz. Dall’alto dei quasi due metri, molte volte il romano non riesce a trasmettere impulsi sufficientemente rapidi agli arti inferiori, trovando difficoltà a uscire dalla traiettoria della palla per poterla dominare come consentirebbe il suo talento. Ho risparmiato al caro Ezio tutta questa filippica giacché, col mio pollice maldestro, avrei commesso tali e tanti errori da completare il pensiero a torneo chiuso. Così mi sono limitato a duplicare la replica telefonica aggiungendo un fanatico «P.S.» che sicuramente l’avrà rincuorato: «Conosci anche tu il suo coach», ho digitato senza dilungarmi oltre. «Dunque è in mani buone». E chiudendo: «sicuramente ne verranno a capo!».