Pedro non riuscì a cogliere subito il valore dell’avversario battuto. Forse perché il face-to-face durò troppo poco, forse perché lui stava giocando particolarmente bene, o forse perché aveva solamente vent’anni: a una certa età è più difficile notare certi aspetti. Tanto che di quel Murray se n’era completamente scordato: «Solo quando l’ho ritrovato fra i primi sono andato a controllare se era veramente lui che avevo battuto. Mentre quando un paio d’anni dopo ho battuto Juan Martin Del Potro, non ho avuto dubbi: mi ha talmente impressionato da pensare subito che l’avrei rivisto presto in tv. Con Murray, invece, mi ero soffermato di più sulla mancanza di un atteggiamento positivo, ma in futuro la sua estrema sicurezza nei propri mezzi è diventata qualcosa di preziosissimo. La strafottenza, se canalizzata nella giusta direzione, può anche trasformarsi in un pregio, almeno su un campo da tennis».
In effetti, a Murray è servita per destreggiarsi fra le varie difficoltà del circuito, fino a diventare numero uno del mondo. Pedrini, invece, il circuito l’avrebbe abbandonato presto, a soli 25 anni, con cinque titoli Futures in bacheca (il primo a Londra, proprio la settimana dopo la vittoria su Murray), un best ranking da numero 294 ATP e il mondo patinato dei grandi tornei accarezzato una sola volta, con le qualificazioni dell’Australian Open nel 2006. «Il motivo? Semplice: nella mia testa fare il tennista significava giocare gli Slam e arrivare fra i primi 100 ATP. Mi sono reso conto che avrei fatto molta fatica e l’idea di dedicarmi al 110% al tennis, investendo il mio impegno da mattina a sera per 365 giorni all’anno, non mi emozionava. Così come un futuro da coach. Ero attratto da altre strade e mi sembrava l’età giusta per cambiare».
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Glielo ricorda ogni giorno anche il suo secondogenito, Jacopo, di un anno e mezzo (e fratello di Mia, di due anni più grande), che in casa impugna una racchettina da mattina a sera. «In effetti non posso immaginare due figli che non sappiano giocare a tennis. Mi piacerebbe che imparassero, per poi divertirmi insieme a loro. E ovviamente non mi farò battere fino ad almeno 60 anni!». E se uno dei due volesse provare a intraprendere la strada del professionismo? «Vista l’età, la decisione è ancora molto lontana, ma al momento l’idea non mi affascina. Per diventare giocatori veri bisogna mangiare tennis da mattina a sera, perdendo tante altre possibilità». Ma guadagnandone, magari, una impareggiabile: quella di poter raccontare ai figli di quel giorno in cui il futuro numero uno del mondo perse contro papà.
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.BIOFILE
Marco Pedrini è nato a Brescia, il 19 aprile 1983. In carriera ha vinto cinque titoli in singolare a livello Futures: tre in Italia, uno in Gran Bretagna e uno in Spagna, oltre a due in doppio. Ha raggiunto il suo best ranking nel 2006, alla posizione numero 294 della classifica ATP. Nello stesso anno ha fatto anche la sua unica apparizione in un torneo del Grand Slam, giocando le qualificazioni dell’Australian Open. Ha terminato l’attività internazionale nel 2008, per dedicarsi all’università, completata con la laurea magistrale in Scienze Storiche. Oggi lavora nel management sportivo, ma non ha smesso col tennis: in Italia è ancora classificato 2.2, gioca la Serie A2 per il Circolo Tennis Bologna e i campionati a squadre in Germania e Francia. Non è raro trovarlo in gara in qualche torneo Open.
(*) Articolo tratto dal numero di dicembre 2016 della rivista "Il Tennis Italiano"