Jannik Sinner non ama i social, è riservato e dedito al lavoro, ma dopo le sue imprese tutti lo acclamano e lo reclamano. Aziende incluse, disposte a pagare cifre da capogiro per farsi “rappresentare”
Il suo ciuffo rosso ormai è entrato nel paesaggio mentale dell’Italia, rafforzato da quella genialata del marketing che sono i Carota Boys. Perché Jannik Sinner nell’immaginario nazionale è ormai come il primo Valentino Rossi, un colore – per il Doctor era il giallo -, un popolo di fan che si riconosce in un manipolo di tifosi ‘ufficiali’ – ricordate la polleria Osvaldo? – in altre parole un ‘brand’ riconoscibile: in campo, in pista, soprattutto fuori. Un marchio che va nutrito di risultati, pena lo sbiadirsi dell’immagine, ma che alimenta in maniera indipendente la fama, la riconoscibilità, il valore sociale e commerciale di un atleta. Fra l’altro, con lungimiranza, il suo management già da anni ha creato un ‘logo’ tutto suo, come la RF di Federer o il toro stilizzato di Nadal: un intreccio di linee all’interno della quale sono contenute la la J e la S del nome e del cognome e un campo stilizzato, che insieme vanno a disegnare la testa di una Volpe: il suo vero soprannome.
Piace ai ragazzi, che lo sentono vicino, piace agli appassionati di tennis e conquista anche chi magari lo sport lo segue solo nelle grandi occasioni. «Perché è un anti-italiano», ha azzardato qualcuno, perché coltiva qualità di serietà e impegno che non sono proprio il nostro marchio di fabbrica. Ma forse il discorso è più complesso, e l’italianità di Jannik viene da un tempo più profondo, quando il baricentro del paese era radicato nelle campagne e non nella città. Jannik è il portatore di valori antichi, la riservatezza, la dedizione che si trasforma in concreta efficienza, la genuinità che piace a chi rimpiange l’Italia di un tempo, che sapeva costruire e ricostruire con pazienza, lontana da tronisti e da velini e con poca fiducia anche nei social, che come dice Jannik, che non li ama, fanno parte del ‘lavoro’ e non dell’identità di una persona.
A soli 22 anni Jannik insomma è già un personaggio ‘pop’, non un semplice campione. Il suo volto allegramente spaesato, da ragazzo ‘della porta accanto’ spunta negli spot televisivi e sulle copertine di quaderni e diari di scuola, nei meme sul web e in diretta da Fabio Fazio. E’ il post adolescente sereno ma determinato, che sgranocchia carote ai cambi di campo e dopo aver vinto la Coppa Davis con l’Italia entra in conferenza stampa addentando una mela. Ma poi esprime concetti, sceglie le parole con la professionalità da addetto stampa di una multinazionale. I suoi introiti del resto sono quelli di un’azienda: 15 milioni di dollari all’anno per dieci anni dalla Nike, e poi la partnership con Intesa Sanpaolo, Lavazza, Gucci – il famoso borsone che porta sempre in campo – Rolex, Fastweb, Panini, Pigna, Head, Alfa Romeo, per un totale ormai destinato a superare i 20 milioni di dollari. A questi vanno aggiunti i 15 milioni vinti da Jannik in carriera in soli montepremi fino a dicembre 2023.
Di sicuro Jan si è rivelato un investimento azzeccato, e a confermarlo sono i dati degli ascolti tv delle sue ultime partite. A Torino per la finale con Djokovic si era arrivati a 6,69 milioni di telespettatori fra Rai 1 e Sky (la partita di tennis più vista di sempre in Italia) a Malaga i livelli sono rimasti più o meno gli stessi: 4.662.000 spettatori e 23,35 si share su Rai 2 per Sinner-De Minaur, il match che ha consegnato la Coppa Davis all’Italia, che uniti al 1.024.000 spettatori di Sky (5,1% di share) fanno un totale anche questa volta attorno ai sei milioni. Se la Fitp è riuscita a portare le Atp Finals a Torino, e soprattutto se nel 2025 anche le Final 8 di Coppa Davis approderanno da noi, a Milano o a Bologna, il merito è in larga parte dell’Effetto Sinner: il tappeto rosso che fa da base ai successi del nostro tennis.
per gentile concessione de su La Stampa