
Natasha Chmyreva vanta una semifinale all'Australian Open ed è stata n. 13 del mondo
Di Riccardo Bisti – 27 marzo 2014
“Signorina Chmyreva, cosa ha fatto in Messico?”
“Sono andata a vincere le Universiadi”
“Signorina Chmyreva, le ripeto. Cosa ha fatto in Messico?”
A quel punto, il clima si è fatto pesante. Sembrava un interrogatorio del KGB. Natalya Chmyreva, meglio nota come Natasha, non ha abbassato la cresta e ha lasciato la stanza. Sbattendo la porta. Pochi giorni dopo, le notificarono una squalifica di 12 mesi. Terminò così la carriera di una giocatrice che avrebbe potuto essere il terzo incomodo tra Chris Evert e Martina Navratilova. Non ancora ventenne, la Chmyreva battè un paio di volte la Evert e giocò alla pari contro la Navratilova in semifinale all’Australian Open. Eppure il suo nome non ha resistito all’usura del tempo. Un po’ per colpa sua, perché non ha concesso interviste per 25 anni. Un po’ perché è stata un lampo, una meteora. Probabilmente la più forte giocatrice di sempre a non giocare una stagione intera nel circuito. Uno dei tanti sprechi di un periodo, quello della Guerra Fredda, che si è insinuato nello sport con storie piene di rimpianti. La Chmyreva non fa eccezione. Nell’Unione Sovietica di Breznev, i suoi genitori (mamma Svetlana era un’insegnante di tennis) hanno commesso l’errore di non inquadrarla, lasciarla pensare con la sua testa. E lei era una ribelle, per nulla affascinata dalle divise dei militari sovietici. Le piacevano la libertà, gli hippie, gli americani. Una colpa imperdonabile. Alta e flessuosa, era cresciuta come un maschiaccio, arrampicandosi sugli alberi e saltando sui tetti dei garage. Una Mowgli al femminile. Ma aveva un talento incredibile, forgiato dal professor Semen Beltis-Geiman, il teorico del tennis sovietico. Aveva deciso che, nei tornei nazionali dei primi anni 70, un punto conquistato col serve and volley sarebbe valso il doppio. E Natasha non aveva rivali, quando si trattava di battere e scendere a rete. Il suo Libro della Giungla iniziò a scriversi nel 1974, ad appena 15 anni. Si qualificò per Wimbledon, ma non glielo fecero giocare perché era troppo giovane. Si rifece l’anno dopo, quando vinse tre Slam junior: Australian Open, Wimbledon e Us Open. E al Roland Garros non la fecero andare. “Aveva un talento incredibile e una grande potenza. Era una scarica di fuoco sul campo da tennis” dice Chris Evert, che nel 1977 fu battuta in un’esibizione a Plains, Georgia, città natale del presidente Jimmy Carter, poi di nuovo nel World Team Tennis.

L’ultima chance è arrivata nel 1979, in occasione della Fed Cup in Spagna. Perse un brutto match contro Tracy Austin e risalì sull’aereo per Mosca. Se fosse scappata via e chiesto asilo politico alle autorità di Madrid, forse il tennis avrebbe raccontato un’altra storia. Forse avremmo avuto una campionessa in più. Aveva vinto le Universiadi a Città del Messico, ma quel viaggio fu la sua condanna. Gli atleti sovietici dovevano restare sempre tra loro, in modo da essere riconoscibili, e relazionare con dovizia di particolari gli incontri con atleti di altre nazionalità. La Chmyreva inviava relazioni puntuali, ma parlava solo di aspetti tecnici e non di quello che faceva fuori dal campo. Qualche lingua lunga informò che era andata in discoteca. Peccato mortale, aggravato dall’assenza di altri sovietici. Si era mischiata agli occidentali. Le diedero l’occasione di "ravvedersi" nel colloquio raccontato a inizio articolo. Lei si alzò e sbattè la porta. Il problema è che dentro quella stanza non c’erano soltanto i burocrati, ma le speranze di diventare una campionessa. Le impedirono di uscire dal paese per un anno. A fine squalifica, avrebbe potuto tornare a giocare. La speranza era rappresentata dalla ex compagna Olga Morozova, nel frattempo diventata capitana di Fed Cup. Soltanto le giocatrici della nazionale avrebbero potuto giocare all’estero. Ma arrivò la doccia gelata: “La Chrymeva? Potrei chiamarla soltanto per fare da sparring alle giovani”. Natasha capì che era finita. Giocò solo sotto casa, tento un modesto rientro nel 1984, ma aveva dimenticato come si giocava. L’anno dopo si sarebbe laureata in giornalismo, prima di finire nel dimenticatoio, fino a quando qualcuno si è ricordata di lei. “Voglio soltanto dimenticare, adesso conduco una vita tranquilla. Il tennis mi ha reso felice, ma mi ha anche fatto diventare le persona più miserabile della terra”. Forse allude al torneo di Chicago 1977, quando raggiunse le semifinali. Le sarebbe spettato un prize money di 5.000 dollari, ma le confiscarono quasi tutto. Le rimasero in tasca 280 dollari, cui togliere 100 di spese. “All’epoca per me non cambiava nulla: mangiare un hamburger o un filetto della carne più pregiata era la stessa cosa. Contava solo vincere”. Le avevano messo questo in testa, ma lei aveva altri pensieri. Le erano venuti qualche mese prima, quando le 16 qualificate per i Virginia Slims Championships furono invitate alla Casa Bianca. Nello sfarzo, furono accolte dal presidente Ford. “Mi strinse la mano e mi chiese qualcosa su Breznev”. Cosa avrebbe potuto rispondere?