Grandi doti tecniche, un fisico allenato con cura, la mentalità forte di chi è cresciuto con un'educazione tosta. Un ragazzo che ben presto ha lasciato casa per tentare la via del professionismo, fino a diventare il numero uno di Francia. Dopo aver trascinato la Francia alla decima Coppa Davis, vuole riprovarci dopo aver contribuito a eliminare l'Italia.Articolo pubblicato sul numero di aprile 2017 della rivista Il Tennis Italiano

Ha la forza mentale di uno scacchista e la forma fisica di un boscaiolo finlandese.
Difficile non avere successo se metti insieme i due fattori, anche se vieni da un paese complicato come la Francia, dove i maschietti non vincono uno Slam da trentacinque anni. Quando Yannick Noah vinse il Roland Garros nel 1983, il Presidente della Repubblica era Francois Mitterrand, il computer Apple si chiamava Lisa e, in circostanze misteriose, sparisce Emanuela Orlandi. Oggi al timone della Francia c'è Emmanuel Macron, la Apple è diventata la società più capitalizzata in Borsa e la scomparsa di Emanuela Orlandi resta uno dei misteri irrisolti della nostra storia. Nel frattempo sono cambiate tante cose anche nel mondo del tennis. Tuttavia, un fatto è rimasto immutato: pur restando forti e ricchi (grazie ai proventi di Roland Garros), i cugini francesi non hanno mai più vinto un titolo dello Slam. C'era una generazione che prometteva bene: Le Don du Ciel, al secolo Richard Gasquet, Jo-Wilfried Tsonga, Gael Monfils. Nessuno ce l'ha fatta. Adesso, questa enorme pressione è sulle spalle di Lucas Pouille, fresco top 10 mondiale, che pochi mesi fa ha regalato alla Francia la decima Coppa Davis. Nell'ultimo singolare contro Steve Darcis, sul punteggio di due lari, poteva subentrare un pizzico di tremore: ha vinto lasciando per strada quattro game. Capelli biondi, occhi azzurri e fama da bravo ragazzo, per Pouille la Davis rimane una priorità, al punto da rinunciare – senza pentimenti – al Masters 1000 di Miami per preparare la trasferta di Genova. «Molti sputano volentieri sulla maglia della Francia» hanno scritto i cronisti transalpini, mai troppo teneri con i loro giocatori. Per questo hanno preso in simpatia Pouille, anche se ha scelto di andare a vivere a Dubai, a distanza di sicurezza dalle pressioni (anche quelle fiscali). Si sciolgono quando gli sentono dire che «giocare con la maglia della Francia è la cosa più bella che ci sia, un immenso orgoglio».
E pensare che avrebbe potuto rappresentare un'altra bandiera. Papà Pascal è francese, ma la madre (Lena Stenlund) è finlandese purosangue. Lucas ha preso tanto da lei, a partire dall'aspetto fisico. Da ragazzina abitava a Narpes, sulla costa occidentale della Finlandia, dove il 90% della popolazione si esprime in svedese. Un bel giorno partì per una vacanza in Gran Bretagna e conobbe il signor Pascal, che all'epoca lavorava per Aland, compagnia di navigazione che effettua i collegamenti via mare tra Francia e Gran Bretagna. Amore a prima vista e nessun dubbio sulla scelta di vivere in Francia, a Grande Synthe, cittadina nei pressi di Dunkerque, celebre per la battaglia tra Alleati e le truppe tedesche della Wehrmacht nel 1940. Nessun dubbio anche sulla voglia di allargare la famiglia: prima sono arrivati Jonathan e Nicolas, poi Lucas. Era il 23 febbraio 1994. Lucas è stato un fenomeno di precocità: a otto mesi ha iniziato a camminare, ad appena due anni era già in grado di andare in bicicletta senza rotelline, «perché aveva due polpacci duri come l'acciaio» racconta il padre. In giardino, i fratelli Pouille praticavano qualsiasi tipo di sport: calcio, skateboard, pattinaggio. La Francia è un paese benestante, ma la ricchezza non è distribuita in modo uniforme. Nell'estremo nord c'è tanta disoccupazione e il clima non è dei migliori, perché le coste sono battute dai venti freddi provenienti dal mare. Per dare forma a questa storia, dunque, ci voleva il destino. Circa quindici anni prima, il comune di Kopaonik pensò bene di costruire alcuni campi da tennis laddove la famiglia Djokovic aveva un ristorante pizzeria. La leggenda di Nole è nata così. Quella di Pouille non è tanto diversa: a 300 metri dalla sua casa, aprirono un piccolo circolo, il Tennis Club Loon Plage. Tutta la famiglia ci si fiondò, quando Lucas aveva sette anni. Ci volle poco affinché il suo primo maestro, Cristophe Zonnekynd, capisse chi era il più bravo. Lucas aveva talento, ma gli mancava un po' di fisico, perché sembrava evidente che già gli piacesse la buona tavola. Il primo tecnico federale a visionarlo fu Patrice Dominguez: appena lo vide, disse: «È un po' rotondetto, ma anche molto determinato». Gli appiccicò una specie di bollino di qualità con un asterisco ben evidente: fosse dimagrito, sarebbe diventato forte. Quando ripensa all'aneddoto, Pouille sorride: oggi è alto un metro e 85, pesa 81 chili e nella sua partita più bella ha tenuto fisicamente contro Rafael Nadal in una battaglia di quattro ore. Dopo quello straordinario successo allo US Open 2016, coach Emmanuel Planque non era affatto stupito: «Lucas aveva sopportato allenamenti ben più duri di quel match. E prima di scendere in campo non era emozionato. Si sentiva pronto».
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Prima di presentargli Planque, la federazione francese lo inserì nel centro tecnico di Poitiers, con la possibilità di allenarsi a tempo pieno. Aveva 12 anni e – risposta indiretta a chi sostiene che i baby tennisti debbano essere lasciati a casa per non essere sradicati dal loro ambiente – faceva jogging nel bosco, con temperature sotto lo zero e senza un lamento o una nota di nostalgia. Forte della rigida educazione ricevuta, forgiava quel carattere che gli ha permesso di giocare il match decisivo di Coppa Davis come se fosse un primo turno qualsiasi. «Si dice che i francesi abbiano più talento che voglia di lavorare – riflette Pouille –: non so se sia vero, ma in effetti quando pensi a uno spagnolo, ti viene in mente un giocatore che lotterà su ogni palla e non ti regalerà mai niente. Se invece pensi a un francese dici: 'Ok, ha talento, però…'. Non voglio giudicare, ma io non faccio parte di questo luogo comune. Non so perché sono diverso, probabilmente è il frutto dell'educazione che ho ricevuto». Un aneddoto, più di altri, spiega il clima che si viveva a casa Pouille. «Dovevo giocare un torneo giovanile a Lille. La mia partita era alle 9 del mattino e tutti gli altri ragazzi si erano preparati bene, arrivando con grande anticipo. Io giocai svogliato, senza sforzarmi. Al ritorno, in macchina, i miei si arrabbiarono moltissimo: erano feriti dalla mia leggerezza. Mi dissero che dovevo avere rispetto per gli altri, per le regole e i miei doveri». Il cerchio si è chiuso il 27 novembre 2017, quando Lucas ha firmato il punto decisivo per la conquista della Coppa Davis. Ovviamente, a Lille. «Sul piano mentale è scandinavo come la madre – interviene coach Planque –, ricorda Edberg, Borg o Wilander. Può trovare energie interiori anche nei momenti più difficili, quando deve giocare quattro, cinque ore contro i più forti».

Ma secondo il diretto interessato, non è sempre stato così. Per anni, ha lottato con le aspettative: «Quando ero in campo, pensavo a cosa avrebbero detto di me. Poi ho capito che avrei dovuto restare concentrato su me stesso e non su cosa sarebbe successo in caso di sconfitta. Adesso ho un solo obiettivo: migliorare in ogni singolo minuto che trascorro su un campo da tennis». Ma se la mentalità si è sviluppata da ragazzino, tra i campi e i boschi di Poitiers, il fisico ha avuto bisogno di più tempo. Durante l'adolescenza, il corpo gli ha chiesto il conto in più di un'occasione. Per quanto i polpacci fossero forti, come aveva sottolineato papà Pascal, in generale non era fisicamente così preparato ed è stato costretto a fermarsi parecchie volte. Eppure ha sempre in testa un motto ben preciso: «Ne jamais abandonner!», che potremmo tradurre nel nostro abusato «non mollare mai!». «Per lui è più di un mantra, è uno stile di vita» dicono quelli che lo conoscono bene. Era ancora un ragazzino quando Patrice Dominquez (allora responsabile degli under 18 francesi) gli ha messo accanto Emmanuel Planque. A parte un background di tutto rispetto (aveva allenato Michael Llodra e poi lavorato con Fabrice Santoro e Josselin Ouanna), è un tipo particolare: barba e capelli lunghi, fanatico di Bruce Springsteen e amante del teatro. Era un rischio mettere insieme due tipi così diversi. Però Planque aveva una qualità: oltre a essere laureato in psicologia, aveva un diploma in preparazione atletica. Insomma, era l'uomo giusto per capire cosa non funzionava nel fisico di Pouille. Decisero che era essenziale un fisioterapista, e la famiglia sorprese tutti, offrendosi di condividere le spese per questa nuova figura. Fatto piuttosto raro in un paese dove si può attingere al sostanzioso portafoglio della FFT. Però era un modo per responsabilizzare maggiormente Lucas. Obiettivo raggiunto.
Oggi Pouille è un esempio di cura maniacale della condizione fisica: «Non lascio nulla al caso: non puoi diventare un campione se non sai come funziona il tuo corpo. Ho cominciato a rispettare i tempi di riscaldamento e recupero, oltre a lavorare con esperti nutrizionisti. Una partita di tennis si vince anche a tavola». In questo contesto, si inserisce la scelta di spostarsi a Dubai. Non ha mai negato i benefici fiscali (peraltro graditi a molti connazionali che hanno trasferito la residenza in Svizzera), ma la spinta è stata (anche) un'altra. Il primo contatto è arrivato nel febbraio del 2015, quando Roger Federer lo ha invitato per qualche allenamento in vista del locale torneo ATP. Lucas si è guardato intorno e ha capito che era il posto ideale: «Lavoravo con la FFT da nove anni e per altrettanti inverni mi sono preparato sempre nello stesso modo, indoor, nel freddo di Parigi. Però la stagione inizia in Australia, dove fa un gran caldo e volevo allenarmi dove ci fossero condizioni simili». Tempo qualche mese e ha iniziato le pratiche per la residenza, poi ha acquistato un appartamento in zona Marina Bay e dal dicembre di quello stesso anno fa base a Dubai. Ma se tanti giocatori ci vanno solo durante la stagione invernale per sfuggire al freddo europeo, lui ama soprattutto le condizioni estreme, calde e umide, che si trovano nelle altre stagioni. È lì che la sua carriera ha svoltato: «Alzarsi alle otto del mattino e trovare una temperatura sopra i venti gradi non ha prezzo».

Inoltre ha investito su un preparatore atletico, Pascal Valentini, che gli ha dato un metodo per migliorare forza e resistenza. I risultati sono arrivati in fretta: nel 2016 ha vinto la prima partita contro un top 10 (David Ferrer a Miami), poi è giunto in semifinale a Roma e nei quarti a Wimbledon e allo US Open. Nel 2017 si è consolidato tra i top 20, vincendo tre titoli ATP su altrettante superfici (la terra di Budapest, l'erba di Stoccarda e il cemento indoor di Vienna). Quest'anno è partito male, perdendo subito in Australia. Allora ha scelto una programmazione intensa, per mettere partite nelle gambe. Risultato? Quinto titolo in carriera a Montpellier, poi finale a Marsiglia e Dubai. A quel punto era inevitabile rinunciare a Miami per rifiatare e arrivare a Genova al top della condizione. La Davis è una priorità, ma la è ancor di più da quando in panchina è tornato Yannick Noah. Nella primavera del 2015, Planque lo contattò e gli chiese di entrare nel team, con modalità più o meno a piacere. Noah era fuori dal giro da parecchi anni ma accettò e gli diede un sostanzioso apporto nelle vesti di mentore. Si può dire che Pouille si stata la catapulta che lo ha convinto a tornare sulla panchina di Coppa Davis. E non c'è da stupirsi che sia proprio Pouille il punto fermo del team francese. Noah lo ha fatto esordire e ha fiducia infinita nei suoi confronti. In tutto questo, c'è una vita privata tranquilla e ordinata. Al suo fianco, la fidanzata Clemence Bertrand. Si sono conosciuti nel 2010 durante un torneo giovanile, a St. Brieuc, e da allora non si sono mai separati. Lei ha rinunciato a tutto per stargli accanto, accettando anche il trasferimento a Dubai, dove lo tiene alla larga dall'invadente vita notturna locale: «Ma Lucas è un tipo tranquillo, non credo che frequenterebbe comunque i locali notturni – dice Planque –: è sufficiente un buon ristorante per passare una bella serata».
C'è tanto di scandinavo nell'aspetto e nel cuore di Lucas Pouille, ma non c'è più la cittadinanza. Da bambino, mentre in camera appendeva il poster di Sebastien Grosjean, lo portavano in Finlandia un paio di volte all'anno. Fino alla maggiore età ha avuto il doppio passaporto, ma per mantenerlo avrebbe dovuto svolgere il servizio militare. Meglio lasciar perdere e tuffarsi nella realtà francese, anche se le pressioni sono maggiori e l'incidente diplomatico più probabile. L'anno scorso è stato protagonista di una polemica con il presidente federale Bernard Giudicelli durante Roland Garros. Alla vigilia del torneo, coach Planque aveva detto che il suo allievo avrebbe potuto giocare anche sette ore con 45 gradi di temperatura. È finita che ha perso, male e per sfinimento fisico, al terzo turno contro Albert Ramos: «Gli manca la grinta. Se il suo allenatore dice una cosa del genere e poi ha i crampi nel quarto set, significa che c'è un problema» aveva tuonato Giudicelli. Lucas non ama alzare la voce e così, anziché rispondere sui giornali, ha atteso la prima occasione utile per parlare direttamente con il suo presidente. Ne è uscito con il sorriso sulle labbra: «Adesso è tutto a posto, ci siamo chiariti e abbiamo gli stessi obiettivi». Tre mesi dopo, la Francia ha vinto la Coppa Davis. Ma la sua missione non è certamente finita in quell'istante: «Ci sono sempre nuovi obiettivi da raggiungere, in campo e fuori. I miei esempi sono Federer e Nadal: non hanno mai detto una parola fuori posto e mi sono reso conto che anch'io ho avuto più successo quando sono rimasto calmo e padrone delle mie reazioni. E poi noi tennisti siamo un esempio per i giovani, non bisogna mai dimenticarlo». Lucas è ben deciso a continuare così. Magari, con uno Slam in tasca.