«A 15 anni ero classificato 4.2. Un giorno giocai contro il signor Gattavecchi, 35 anni, era un viticultore che fa il Nobile a Montepulciano. Persi. Il mi’ cognato, che era 3.1 e fidanzato da poco con la mi’ sorella, era venuto a vedermi; dopo la partita, le si avvicinò e disse: “Ma indò va il tu’ fratello, 4.2 a 15 anni?”». Aveva ragione, il cognato. A sedici, quando i migliori italiani ci provano col Bonfiglio, Luca Vanni era retrocesso a 4.3. Questa non è la storia di un esempio ma il suo contrario. Altrimenti, si insinuerebbe un messaggio devastante, brevettato da una fabbrica tedesca di abbigliamento sportivo e perfetto solo per gli spot: nulla è impossibile. Il ragionier Vanni di Valdichiana in finale in un torneo ATP a 29 anni, anche se un mese prima non aveva mai giocato un ATP? Certo che sì, basta crederci.
Ma quando mai. Per annodare le corna a una vita qualunque, non puoi essere uno qualunque. Quando Lucone, quasi due metri di sportivo figlio di un pallavolista di serie A2, ti racconta dieci anni di esistenza da folle (o da genio, da sprovveduto cosmico, vedete voi) non è l’episodio fuori dall’ordinario che ti colpisce, perché non c’è. È il tutto. Un terza categoria («Ci sono arrivato a diciassette anni, a 3.5, dopo aver vinto il circuito delle vallate aretine») che ha deciso: un giorno giocherà contro il suo idolo Marat Safin, campione allo US Open mentre lui, alla stessa età di Marat, la spunta sì e no al terzo set contro il macellaio di Arezzo. Siccome «a vent’anni ero ancora negato», abbastanza perché si rassegnasse a non giocare tornei oltre i confini della Toscana, Vanni si è diplomato. Non contento del suo tennis scadente, si è pure spaccato il ginocchio. Due volte. Crac all’articolazione e un altro in banca, dove la sorella tuttora custodisce il conto cointestato e lo strapazza quando legge prelievi strani («Mi piace fare regali a caso, mandare fiori alla mia ragazza il 13 marzo, quando non c’è niente da festeggiare»). Un lunedì, ancora convalescente, Lucone si presenta al mobilificio Vanni di Foiano della Chiana. Non per parlare col titolare, con papà, ma per mettersi a lavorare. Davanti c’è l’esposizione; dietro, la fabbrica di legno. I Vanni costruiscono e assemblano arredamenti su misura: stanze d’albergo, salotti, camere da letto. «Dopo due settimane, mio padre mi prese di brutto: “Luca, vattene. Qui non ti voglio più vedere. Se proprio vuoi andare a lavorare, cercati un altro posto”. Soffriva, a vedermi montare le cucine country». Gli aveva parlato il pallavolista che era in lui, nell’unico momento in cui il figlio stava tornando alla ragione e vedeva quel suo sgangheratissimo sogno ormai perso per sempre.
Bingo? Non scherziamo. In quei giorni, altri ragazzi dell’85 fanno bingo: Stan Wawrinka è al terzo turno di Wimbledon; Tomas Berdych ha appena messo il piede nei primi 20 al mondo; Simone Bolelli è la nuova stella dei challenger italiani; i francesi, che pompano decine di milioni di euro l’anno nel settore tecnico, hanno scovato un ’85 forte, si chiama Jo-Wilfried Tsonga, e un ’86 da lanciare, Gael Monfils. Vanni, invece, torna in Valdichiana, dopo aver perso al secondo turno contro Paul Baccanello, ex (molto ex) 120 ATP. Perso lottando, sì: di quella partita conserva un ricordo, una sensazione quasi fastidiosa, che la distanza tra il diritto marcio del commercialista e la vita, se non di Berdych, almeno di Bolelli, si potesse annullare. Se solo uno dei suoi salti coi trampoli non gli avesse scardinato un’altra gamba, pensava. Se solo avesse imparato a giocare a tennis, avrebbe aggiunto chiunque altro. Se solo avessi conosciuto Charlize Theron. Se solo mio nonno avesse le ruote…

Un giorno squilla il telefono a casa Vanni, Luca è chissà dove a giocare contro chissà chi. «“Siamo una ditta di Valdarno”, dicono dall’altra parte. Risponde mia mamma. Cercavano il ragionier Vanni, avevano trovato il nome nell’elenco dei diplomati e volevano sapere se ero interessato. “No, grazie, Luca non è il tipo”». Lui farà il tennista, dice. Quelli che parlano di sofferenza nel perdere la finale dell’ATP di San Paolo, stando 5-4 e servizio nel terzo set, non hanno capito che sofferenza è sacrificare un bene senza ritorno, dieci dei migliori anni delle nostre vite, rincorrendo uno spettro alato che solo i suoi occhi percepivano. Lui vedeva Nadal e Roland Garros ma era a Brusaporto e di là c’era Hans Podlipnik-Castillo, che approfittava della distrazione e lo batteva. Ecco perché le prime parole, dopo il match point in Brasile, non sono state «Maremma» e qualcos’altro di irripetibile sfasciando la racchetta, ma «Vi amo tutti».

L’abitudine a vedersela con se stesso e il proprio mondo artificiale, alla John Nash, talvolta aiuta. Del resto la federazione, giustamente, mai si è sognata di contribuire alle utopie di un fuoricorso cronico. Potevano, sì, fargli una telefonata dopo il Brasile, un messaggio, invece niente. «L’anno scorso ero 847 del mondo, in estate 220. C’era Todi, scrissi una mail a Sergio Palmieri: ciao, sono Luca Vanni, vorrei chiedere la prima wildcard di sempre, penso di meritarla. Mi rispose: caro Luca, mi spiace ma 3 su 4 sono già assegnate e normalmente le diamo agli under 25. Io dico grazie lo stesso, sono sempre gentile, come quando mandavo i baci ai brasiliani nel match con Souza. Poi incontro Naso: anche lui aveva chiesto la wild card. La mail di risposta era la stessa, copiata e incollata. Solo che “caro Luca” era diventato “caro Gianluca”». In fondo, lo stile è l’abito dei pensieri.
Questo è Luca Vanni. Mai fatto un torneo ETA. Mai visto, fino a gennaio 2015, un torneo ATP. A San Paolo del Brasile ci è andato perché sapeva di poter finire in pari la trasferta in Sudamerica, anche perdendo. Si è qualificato, ha vinto il primo match nel Tour contro Thiemo de Bakker, ha preso in dono il posto in tabellone di Feliciano Lopez, è arrivato in finale, a tre punti dal successo contro un top 30, ha perso 7-6 al terzo. In una settimana ha incassato il 20% del prizemoney di tutta la vita; con la classifica di oggi entrerebbe davvero a Roland Garros. Magari sul centrale, magari contro Rafa Nadal. E non lo ha fatto per diventare ricco, perché la gratificazione economica «non ti piena». Il denaro lo usi per campare e, nella sua generosità così sfacciatamente autentica, per raddrizzare una giornata storta a un tuo caro, o a chi ti va. San Paolo varrà una sola gratificazione, l’orologio che coccola da quindici anni, e pazienza se è un pataccone da commendatore: uno sfizio deve pur essere un po’ pacchiano. Però Bravina non verrà rottamata e la cena a casa con Francesca, per risparmiare i 50 euro di due sedute dall’osteopata, non cadrà in prescrizione per la chianina del Falconiere di Cortona.
Chiamatelo un folle, un genio, un incosciente, o la cosa più insana mai capitata al tennis italiano. Ma non un esempio: Luca Vanni da Foiano, semmai, è un esemplare. Unico.