Ad Atene l’irlandese è andato in vacanza, e viene convinto solo durante una cena a partecipare alle gare della prima Olimpiade dell’età moderna. Ricavandone due medaglie e un appassionato diario
Mentre i due drappi salgono nell’aria già calda del pomeriggio di aprile, l’addetto che manovra la fune vede con la coda dell’occhio avvicinarsi un tipo in pantaloni bianchi, un paio di baffoni diritti e due penetranti occhi blu che lampeggiano sotto la tesa larga di un cappellaccio.
«Sono irlandese», gli dice lo straniero con un sorriso cordiale ma un po’ tirato, indicando la Union Jack, immobile a mezz’asta accanto al nero, bianco e rosso della bandiera tedesca. L’addetto lo fissa perplesso. «Mi perdoni. Intendo dire: sono irlandese. Non inglese. E nella nostra bandiera – sottolinea puntando l’indice – ci sarà un’arpa dorata su uno sfondo verde. O almeno lo speriamo». Lo sguardo è intenso, leggermente ironico. Chiaramente, il tipo non ha intenzione di muoversi.
Kostas dà un’occhiata alla spianata del velodromo, punteggiata da pochi spettatori, per lo più annoiati nel tardo pomeriggio. Le finali si svolgono su tre campi allestiti all’interno dell’impianto, ma solo dopo la conclusione del programma di ciclismo, dalle cinque in poi.
C’è ancora la finale del singolare maschile, si sta facendo tardi. «Va bene, kyrios. Gliela trovo», dice facendo un breve cenno con il capo. «Efharistò», risponde l’irlandese, toccandosi la tesa con un dito. «Thank you very much». Solo allora il gentleman in pantaloni bianchi si allontana, ritornando verso il campo dove lo attende un altro giocatore, un po’ stempiato, la fronte alta e lo sguardo corrucciato, attrezzato anche lui con un paio di baffi, ma a manubrio. «Scusami Fritz, ho risolto il problema. Pensi di restare per la finale di singolare?».
ULTIMA TAPPA DI UN GRAND TOUR
John Pius Boland nella primavera del 1896 ha 26 anni. È figlio di un uomo d’affari che dopo la morte della moglie ha affidato i suoi sette figli allo zio Nicholas Donnelly, vescovo ausiliario di Dublino. L’anno prima, nel 1895, a Oxford, dove studiava da barrister al Christ Church College, aveva scoperto da un manifesto che ad Atene sarebbero state organizzate le prime Olimpiadi dell’età moderna, volute da quel francese innamorato del passato e invidioso del sistema scolastico britannico: il Barone De Coubertin. «L’occasione giusta per visitare Atene», gli ha suggerito Kostantinos Manos, la matricola greca che John qualche tempo prima ha invitato ad un Breakfast party della Oxford Union Society per parlare, fra un coffee e una omelette with sausages, della rinascita dello spirito olimpico. I due sono presto diventati amici, e John ha deciso di seguire il consiglio. In fondo è scapolo, giovane e anche se preferisce di gran lunga il cricket, la racchetta l’ha impugnata in qualche torneo a livello nazionale, a Dublino e all’Egbaston Oratory, vicino a Birmingham, poco distante dalla casa di Harry Gem, uno degli inventori del gioco che il maggiore Wingfield una ventina di anni prima aveva brevettato, guarda caso, con un nome greco: Sphairistikè.
Partito il 14 di marzo da Bonn insieme con l’amico Alfred Pazolt per una sorta di Grand Tour, dopo tappe a Monaco, Vienna, Trieste, Corfu e Patrasso, è arrivato ad Atene il 31 marzo a bordo della ‘Hungaria’, prendendo alloggio al Minerva Hotel, uno dei più lussuosi della capitale.
TREDICI ISCRITTI, GLI “ATTREZZI” RIMEDIATI SUL POSTO
Il lawn tennis, come è stato nel frattempo saggiamente ribattezzato, è stato scelto a sorpresa come una delle nove discipline ufficiali della prima Olimpiade, ma i concorrenti latitano. Né i fratelli Renshaw, da anni dominatori dei Championships di Wimbledon, né Hartley e Lawford o i suoi connazionali Joshua Pim e Harold Mahony – di cui in seguito Boland diverrà avvocato – hanno dimostrato interesse per la trasferta. Il torneo, insomma, rischia il flop. Così all’arrivo di Boland ad Atene, durante una cena ufficiale, Manos, e soprattutto il suo collega e tennista greco-egiziano ma nato in Inghilterra, Dimitros Kasdaglis, gli hanno chiesto di iscriversi alla gara.
Non prevedendo di giocare, John Pius non si è portato in valigia né scarpe né racchette. Fa però parte di quella che in Inghilterra e negli States si chiama “Muscular Christianity”, un movimento spirituale che considera lo sport come un serbatoio di valori morali e incoraggia la Chiesa a sostenerne la pratica. Quando si trova in Irlanda, ogni giorno, alle sette di mattina va a messa di corsa, ad Atene invece non si lascia scappare i sermoni di padre Didion, consigliere spirituale di De Coubertin e fervente sostenitore del movimento olimpico, «nonostante il suo francese sia per me quasi incomprensibile», come annota nel suo diario. Quindi non si è perso d’animo.
Accettata di buon grado l’iscrizione, in singolare e in doppio accanto al tedesco Friederich “Fritz” Traun, ha passato una mattinata frenetica «in cerca dei vari requisiti». Una racchetta la rimedia al Panhellenic bazaar in Rue de Stade, la divisa sembra più complicata da reperire. «Avevo quasi perso la speranza di recuperare della flanella – scrive nel diario – quando un australiano di nome Broughton, che si trovava con me in un negozio, mi accompagnò da un sarto austriaco dove mi assicurai un paio di pantaloni». Niente da fare, invece, per le scarpe: «Dopo mezza dozzina di tentativi in Hermes Street, mi dovetti accontentare di un paio con la suola in cuoio e il tacco». Pazienza…
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