John Isner potrà raggiungere qualsiasi risultato, ma lui e Nicolas Mahut saranno sempre ricordati per l’incredibile maratona di Wimbledon. Riuscirà a scrollarsi di dosso l’etichetta?
L’arma principale di John Isner è il servizio-bomba
Di Riccardo Bisti – 12 marzo 2013
Quando due giocatori condividono un’esperienza forte, non ci sono alternative. O nasce una rivalità, magari un’antipatia, o sboccia un’amicizia. John Isner e Nicolas Mahut hanno percorso la seconda strada. Magari avranno meno titoli sui giornali, ma poco importa. Tre anni fa, ci vollero tre giorni e 11 ore di tennis per decidere chi dei due avrebbe passato il primo turno di Wimbledon. Fu il match più lungo nella storia del tennis. Malconci, infortunati, stanchi, ma eroi in tutto il mondo. Quella partita ha segnato il loro destino: se anche dovessero vincere uno Slam (impossibile per Mahut, improbabile per Isner), saranno ricordati soprattutto per quel 70-68 al quinto set. “Mi sento molto vicino a Nicolas – ha detto Isner, i cui ricordi sono ancora vivissimi – prima di quella partita lo conoscevo, ma era una cosa superficiale. Quando ci incontravamo facevamo un cenno con la testa e nulla più. Dopo la nostra maratona mi sono reso conto che è uno dei ragazzi più simpatici del tour. E ha grande classe. Siamo diventati buoni amici, siamo sempre in contatto, abbiamo sviluppato una buona conoscenza. Non potrebbe essere altrimenti, dopo aver condiviso un campo da tennis per tre giorni”. Oggi non è il miglior momento nella carriera di Isner. A Indian Wells ha perso subito, uscirà dai primi 20 e la sua leadership americana traballa. Ma la gente, soprattutto chi conosce il tennis in modo superficiale, lo ricorderà sempre per quella partita. E’ come Antonin Panenka e il suo rigore “a cucchiaio” o l’incredibile oro olimpico di Josef Polig nella combinata di Albertville 1992. “Ma infatti – continua Isner – secondo me la gente nemmeno ricorda chi ha vinto. Ciò che conta è il fatto di averla giocata. Quel giorno, Nicolas Mahut era un guerriero”.
Ma po’ d’orgoglio resta. Isner è consapevole che verrà ricordato per questo, ma è convinto di aver fatto anche cose buone. “Ma si, ho ottenuto qualche vittoria importante, ma per togliermi di dosso l’etichetta ho bisogno di fare qualcosa di più”. Isner fonda il suo gioco su un servizio-bomba: contro Mahut tirò la bellezza di 112 ace. Probabilmente è il miglior battitore dai tempi di Goran Ivanisevic. Ha carriera ha vinto cinque titoli ATP, ma niente di davvero importante. Vanta due successi a Winston Salem e altrettanti a Newport. Isner si esalta contro i grandi avversari, nei grandi palcoscenici. “Si, credo che sia per questo motivo che io abbia battuto Federer a casa sua, Djokovic e Indian Wells e per poco non facevo uno scherzetto a Nadal a Parigi”. Ragazzo simpatico, è consapevole dei propri vizi e virtù. “Servizio a parte, il mio colpo migliore è il dritto. Non è un segreto: il mio tennis non è scienza missilistica. Più riesco ad essere aggressivo, più partite vinco”. Dopo la separazione con Craig Boynton, sta lavorando per essere sempre più incisivo con il dritto e più aggressivo in risposta. “Ovviamente il mio punto debole è la mobilità, a causa della mia stazza. Lavoro costantemente per migliorare i miei difetti. So bene che se divento più veloce, il mio gioco migliorerà molto. L’altezza mi dà una mano col servizio, ma non è altrettanto con i movimenti”.
Fuori dal campo, nutre una grande passione per il wrestling. Ne scrive spesso su Twitter, e almeno una volta alla settimana si riunisce con gli amici per guardarsi qualche serata della WWE. “Anche se fanno finta, io ho un grande rispetto per i lottatori. In tanti mi prendono in giro per questa passione, ma la verità è che questi ragazzi mettono a rischio il loro fisico ogni volta. La passione è nata da adolescente: sono cresciuto in North Carolina, dove non c’è granchè da fare. Allora la nostra settimana ruotava attorno al lunedì sera. Ci vedevamo a casa mia, eravamo in 10 e ognuno metteva 5 dollari. Così potevamo permetterci di spendere i 50 dollari per il pay per view”. Ancora oggi, a 27 anni e un’altezza da pivot NBA, continua a fare così. Chissà se riuscirà a fare il miracolo di essere ricordato soprattutto per qualcos’altro. Michael Sell, suo allenatore da qualche mese, è convinto di si.
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