Pat Cash e la sua bandana sono stati un’icona degli anni ottanta, tra vittorie a Wimbledon e scalate in tribuna. Ma non chiedetegli nulla del tennis femminile…
Pat Cash ha giocato anche due finali all’Australian Open, perse entrambe in cinque set
Di Corrado Erba – 25 dicembre 2012
La fascia a scacchi bianca e nera è lì, abbandonata sul tavolino della mia vecchia camera. Tra il modellino dello Spitfire e una vecchia agenda del 1987, c’è una mia vecchia foto in compagnia di un paio di amici, il mare color tabacco ribolle contro un vecchio molo di Brighton; insieme a un paio di amici strizziamo gli occhi, in ditrezione del sole. A voler individuare un’icona eighties nel tennis, la faccia da malandrino, che indossava la suddetta fascia bianca e nera come se esibisse una bandiera pirata. Un veloce e agile brigantino di nome Pat Cash che veleggiò rapido e inarrivabile sui campi di Londra, Melbourne e New York, zavorrato da una struttura fragile a dispetto della corazza esteriore e dei gambone veloci. Come Russell Crowe, l’interprete ideale se mai ci fosse un film autobiografico. Pat fu sempre un tipo irruento, peli sulla lingua zero, rude e assolutamente misogino come i cacciatori del bush, l’arida savana australiana. “Due set di spazzatura, che durano in media mezz’ora”, dichiarò imperturbabile quando gli chiesero un giudizio sul tennis femminile, scatenando le ire delle tenniste femministe. Solo una serie ripetuta di acciacchi gi impedì di riportare quello che il suo gioco meritava, ma non di raggiungere l’Olimpo, offerto soltanto da una vittoria a Church Road.
Nato nei sobborghi di Melbourne, il giovane Pat fu inizialmente attirato dall’Aussie Rules, un ibrido violento tra il rugby e il calcio, ma virò al tennis in tempo per vedere gli ultimi grandi serve and volleyers australiani. Giocava un tennis istintivo, costruito sui campi spelacchiati dei sobborghi di St. Kilda. Già atleticamente formato in giovane età, scaricava saette e sprintava a rete, dove chiudeva con schiacciate talmente violente che ogni tanto spezzavano le fragili racchettine di legno. Aggregato al programma giovanile australiano, giocava già da adulto e lasciò presto gli junior senza rimpianti e con due titoli dello Slam: Wimbledon e New York. Il diciassettenne Pat irrompe nel circuito giocando come un pirata: i suoi match sono una serie di arrembaggi. Sui suoi turni di battuta prende la rete dietro morbidissimi servizi ad uscire, tirati con una Prince d’alluminio, di quelle che si compravano al supermercato. In risposta, gioca chip and charge coraggiosi e irridenti, poi si attacca alla rete e si arrampica sui lob avversari, manco avesse un verricello. Non particolarmente brillante da fondo, si arrangia col dritto e si appoggia alle bordate avversarie con il back di rovescio. La tattica rimane obbligata, un seguire brioso e spumeggiante di gioco, dietro a un istinto raffinato dal suo vecchio coach, Ian Barclay. Un altro bel tipo, questo Barclay: baffetto da tombeur de femmes, capello lungo e bianchissimo, sembrava Philippe Noiret, lo Yanez di Sandokan. Mancava giusto la paglietta e il cigarillo stretto tra le labbra.
Si conoscevano da quando Pat aveva 11 anni e nessuno meglio di lui riuscì a seguire un cavallo così indomabile. Nel 1983 vince la sua prima Davis strapazzando una fragile Svezia. L’anno seguente è parte del cast di: “1984: The Us Open Tennis Super Saturday”. Giunge a matchpoint contro Ivan Lendl, che lo beffa con un lob impossibile. Una sconfitta così cocente, unita ad alcuni problemi fisici, lo lascia per un paio d’anni a margini del circuito. Le arti piratesche, l’arrembaggio a tradimento, la cannonata violenta sulle fiancate avversarie sembrano ormai perdute. Come l’Olandese Volante, il veliero fantasma, Pat si aggira sul circuito ormai domo. Suona la chitarra con amici famosi, non nega di frequentare bad companies, birra e rock’n’roll. Le donne arrivano e passano. Tuttavia, la vittoria in Davis nel 1986 è il viatico per il suo miglior torneo. Il brigantino pirata ricomincia a veleggiare sul campo centrale di Wimbledon nel luglio 1987, vanamente inseguito dal vecchio Ivan, diventato ormai un pesante e bolso galeone spagnolo, invano proteso a cercare di centrare con le sue bombarde l’equilibrista di Melbourne. Sbuffò disperatamente, Ivan il terribile, rovesciando l’inferno sulla filibusta. Ma il suo galeone cominciò ben presto a sbandare, perdere pezzi, mentre gli armieri si affannavano a buttarsi in mare per evitare l’abbordaggio. Pat chiuse trionfalmente con una volèe di dritto a campo aperto, gonfiò il petto, quindi prese a scalare la tribuna, mentre una passerella veniva metaforicamente spinta sulle murate di Church Road e la folla inneggiava a spingere giù Ivan, nei marosi dei perdenti (Wimbledoniani, s’intende). Nel mentre, il pirata scalava la tribuna, metteva i piedoni in testa a qualche riottoso visconte, per raggiungere il clan. Il brigantino stava tornando in porto, carico di ori e di tesori, la tortuga impazziva, barili di rum versati. In alto i cuori, filibusta.
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