Di Federico Ferrero – 22 gennaio 2015
Arrivai a tifare qualunque suo avversario, fosse pure stato Berasategui, quando osò sbavare in faccia il suo bullesco C’MOOOON a JI Chela dopo un errore da circolo, col dritto a campo aperto. Al cambio di campo, l’argentino gli sputò addosso e Lars Graff fece finta di niente. Perché chiunque avrebbe perso le staffe con un inaccettabile attaccabrighe, il peggiore mai visto su un campo da tennis. Capitava agli Open di dieci anni fa, Hewitt era un ragazzotto ma sembrava di vederlo a Melbourne da sempre, impegnatissimo a distruggere un secolo di bon-ton dei campioni australiani: Rosewall pareva chiedere scusa ogni volta che batteva qualcuno, Laver si concedeva un lancio di palla a mezz’aria per festeggiare il Grand Slam; Lleyton Hewitt, quell’insolente da programma parascolastico di gestione dell’ira, non si curava di scaricare la sua overdose di adrenalina quotidiana dopo il primo punto di un match al meglio dei cinque set. Lo ricorda ancora Alex Corretja, edizione 2000, primo turno: 6-0 6-0 6-1 e il primo schiaffo canoro dopo dieci secondi dal “play”. Gliene andò a dire quattro, quella volta; fecero pace, ma anni dopo.
GIOCAVA MALE. MA VINCEVA.
Guardatelo: nel pacco natalizio 1996, Nike aveva mandato a casa di quel pischello numero 500 al mondo un ordine sbagliato. C’erano solo capi XL, lui non arrivava a settanta chili per un metro e ottanta, ma a chi poteva importare: chi mai lo avrebbe inquadrato? Giocava così, infagottato in abiti per la crescita, un corpicino da maratoneta armato di racchettone Prince. Giocava male, Hewitt. Non aveva niente, neanche il servizio-bomba del suo antenato e non parente Bob Hewitt. Col dritto, controvento, rischiava di non passare la rete. A 15 anni e 11 mesi passò le qualificazioni degli Open con una classifica ridicola, senza perdere un set. Uno dei suoi avversari, Mark Petchey, oggi spalla tecnica di Sky Sport in Gran Bretagna, va per i 45 anni. Utile per fornire un’idea di quanto stiamo guardando indietro nel film del tennis. È il gennaio del 1997: pagavamo in lire, iniziavamo a pensare al Millenium Bug, veniva clonata la pecora Dolly. Lleyton Hewitt, all’età del ginnasio, giocava il suo primo turno Slam contro Sergi Bruguera, allora un navigatissimo bicampione del Roland Garros. Finì 6-3 6-4 6-3.
AMORE VERO
A rivederlo, questa notte, prendere un 1-6 da un cinese solo per ributtarglielo di là con una salva di C’MOOON e l’unica vendetta possibile, il 6-0, mi sono commosso. Cosa ci fa ancora lì, Hewitt, al diciannovesimo Australian Open, nonno di se stesso, una placca saldata nel piede per continuare a servire e nessuna possibilità di vincere niente di importante? Non è un arredo permanente del torneo. Non è l’ex bollito che pietisce l’ennesima wild card mentendo a se stesso perché rifiuta il declino. Non è neanche un milionario deciso a resistere finché tutte le sue cartilagini non saranno lise pur di non chiudersi in casa come Sampras, a far notte a poker col vicino. Di prendersi le pacche che il buonismo del pubblico riconosce a tutti i numeri uno invecchiati e cadenti, pure all’insopportabile Jimmy Connors, non gli interessa nulla. Lo muove la stessa forza che impastata agli ormoni della pubertà lo faceva esplodere in disgustosi gesti da guappo: l’amore per il tennis.