Il regista Julien Faraut ha ripescato dozzine di bobine che avevano come protagonista John McEnroe a Roland Garros 1984, quando giocò il miglior tennis d’attacco di sempre su terra rossa. Le aveva girate Gil de Kermadec, celebre studioso del nostro gioco, convinto che i gesti dei fuoriclasse si potessero analizzare e scomporre per insegnare ai giovani talenti francesi la tecnica perfetta. Ma ben presto si accorse che era un’impresa impossibile. E che entrambi cercavano qualcosa che non esiste
McEnroe «liked it», il film lo ha guardato e gli è piaciuto, ed è una parola strana da usare per il dolore sportivo tra i più laceranti nella storia tennistica americana, con il mancato vincitore che ammette di avere ancora gli incubi a 35 anni da quel pomeriggio di giugno e di infinito rimpianto. Era la finale del 1984 del Roland Garros. Il talento paradisiaco di McGenius aveva stregato anche la superficie più lontana dal suo tennis di attacchi, tocchi felpati e trovate balistiche al di là del concepibile. In tutto l’anno tennistico avrebbe perso 3 sole partite su 85. Ivan Lendl, il perdente designato nelle finali Slam (zero su quattro, fino a quel giorno) era la vittima perfetta. Il pubblico esigente di Parigi, stanco e scocciato da anni di tic-toc di Borg, Vilas e Wilander, stava per incoronare il suo re, il più geniale e fornito di arte tecnica dell’era moderna. Ed era disposto a perdonargli pure la mala educazione e gli scatti d’ira, così invisi alla gente che frequenta il tennis da quelle parti.
Julien Faraut aveva sei anni, quando McEnroe giocò quella finale. Laureato in storia e cinema nel 2000, l’anno successivo entrò con uno stage all’Insep, ente statale cui manca un omologo italiano (Institut national du sport, de l’expertise et de la performance) e, da lì, non è più uscito. Negli archivi dell’istituto, qualche anno fa, gli capitò di trovare una parete di scaffali piena di “pizze” con bobine da 16 millimetri. Erano scarti di produzione. Le etichette recitavano “colpi di McEnroe”, “litigi di McEnroe”, “inquadrature a mezzo busto di McEnroe” e così via. Era ciò che restava del lavoro di Gil de Kermadec, anonimo tennista e celebre studioso dello sport; de Kermadec aveva preso, dagli anni Sessanta, a filmare la gestualità dei campioni durante il Roland Garros, a scopi meramente didattici. Insomma, era convinto che i movimenti dei grandi si potessero analizzare, scomporre e riprodurre, per insegnare ai giovani francesi la tecnica perfetta. Tra tutti, si era innamorato – come non capirlo – del gioco di quell’impertinente ragazzaccio del Queen’s di New York. E su di lui puntò sempre più ossessivamente le macchine da presa, tanto che, nel 1985, gli avrebbe dedicato un lungometraggio apposito. Presto si rese conto, però, che le cose non stavano come pensava: il servizio di McEnroe lo si poteva filmare e spezzettare in migliaia di fotogrammi al rallentatore, e pure trasformare in un primitivo modellino in 3D per misurare di quanto il polso ruotasse o la schiena si inarcasse, ma quel movimento conteneva in sé qualcosa di non racchiudibile in una formula, un esprit indefinibile. Di più: tutto il tennis di McEnroe, tutto ciò che capitava con McEnroe in campo, era un inno all’antiscientifico e all’unicità dell’istinto, del non catturabile: un colpo non somigliava mai all’altro, uno scambio a quello successivo, i rovesci che tirava erano pezzi unici e le sue volée reinventate ogni volta, così come le smorzate a tradimento e quegli attacchi di controbalzo, in barba a tutti gli insegnamenti sul trasferimento del peso del corpo e sull’equilibrio nell’impatto.
Sicché Faraut scoprì per caso, accompagnando un anziano de Kermadec in visita all’archivio Insep, quel materiale che sarebbe dovuto finire nella spazzatura. Cominciò a metterlo insieme, a catalogarlo, a unire spanne di pellicola con lo scotch. Il vecchio cineasta dello sport aveva, infatti, ottenuto di filmare da tutte le angolazioni del campo i match di McEnroe, senza alcun interesse per il risultato: a lui importava solo provare a catturare la formula del genio, anzi, «filmare la realtà», come teorizzavano i registi della Nouvelle Vague, Jean-Luc Godard in testa («Il cinema mente, lo sport no»). Ne risultarono chilometri di pellicola che racchiudevano la formula e l’espressione di un fenomeno. Ma de Kermadec stesso, forse, non era pienamente padrone di tutto quanto aveva documentato. Morì nel 2011, ampiamente ottuagenario, con la consapevolezza che non esiste la realtà oggettiva, e che il solo filmarla e stringerla in una pellicola è già un intervento che la modifica. In alcuni spezzoni, per esempio, si può osservare il protagonista che si lamenta perché nota teleobiettivi dappertutto, puntati contro di lui. Effettivamente, de Kermadec rifiutò sempre l’offerta di usare le telecamere della televisione, pur abbondanti, perché lui voleva in campo le sue cineprese 16 millimetri, quelle che si usavano per il cinema, sistemate dove voleva lui. Aggeggi che facevano rumore, e quel ronzio indispettiva l’udito di Johnny Mac. Addirittura, per una troupe aveva ottenuto l’autorizzazione di riprendere dall’alto, portandola in cielo con un braccio meccanico. Alzando gli occhi al cielo per servire, a un certo punto, McGenius aveva scorto anche quell’ennesimo occhio meccanico, che suscitò ovviamente la sua collera: «Ehi, sono un tennista, qui non siamo all’Actors’ Studio!»
Raccontare McEnroe, L’impero della perfezione è più complicato che guardarlo. Si può dire quello che non è: non è un docu-film sulla carriera di McEnroe, né sul Roland Garros 1984, né su quella partita maledetta. Eppure, l’ultimo quarto del film è dedicato ai cinque set di costruzione e distruzione del sogno di trionfare a Parigi, una sconfitta che lasciò una ferita aperta nella vita dello statunitense e in tutti coloro che erano stregati dalla sua arte. Piuttosto, è uno sguardo su un genio perfezionista, come perfezionista era lo stesso de Kermadec, un uomo destinato a fallire nel suo progetto di catturare, codificare e canonizzare la verità con uno strumento tecnologico. Perché ciò che Faraut intuisce, incollando e riguardando pezzi di pellicola, è che McEnroe fosse vittima di una patologia. Lo psicologo dello sport dell’Insep che il regista consulta, mostrandogli immagini in opera del “paziente” McEnroe, non ha dubbi. Il tennista più inventivo e dotato di tèchne della storia era anzitutto un figlio del suo tempo, padre avvocato d’affari in una società competitiva e spietata, mamma presentissima ed esigente. Un ragazzo che tentò di prendere il controllo su di sé e sulla sua vita mirando all’impossibile: la perfezione. Facendone il suo mostro. Forse era convinto di poter raggiungere solo con quella, la pace e la soddisfazione che gli mancavano. Ma la perfezione è un obiettivo irrealistico: ripulire la realtà percepita da tutto ciò che è men che perfetto, è un’impresa folle e disperata perché nulla, nella nostra esistenza, lo è. Come chi strofina compulsivamente la propria casa, ma sa che oltre il visibile c’è il germe invisibile, l’aria in controluce è un ricettacolo di pulviscolo e, per quanto passi e ripassi, spruzzi e risciacqui, non potrà mai raggiungere la disinfezione ultima. McEnroe, semplicemente, non voleva sbagliare mai. Non accettava alcun errore, in uno sport che è un continuo sbagliare, anche per i più grandi. Ogni scambio contiene errori, ogni set, ogni match, ogni torneo: è una lotta disperata e irrazionale, quella contro l’errore, e inevitabilmente perdente. Ecco che, allora, il minimo disturbo, la minima deviazione dal corso teorico degli eventi (come una palla che esce di un centimetro, o sfiora il nastro e viene deviata, o un signore che starnutisce sugli spalti) diventa l’oggetto della collera di McEnroe. È una lettura affascinante, quella di Faraut, che inciampa in questo tema quasi per caso, ed è anche uno dei passaggi più interessanti di L’impero della perfezione. McEnroe non era solo un viziato e maleducato sbruffone, uno yankee ineducato col dono immeritato di saper giocare il tennis degli dèi. Era una persona insoddisfatta, perennemente a disagio: nel film lo si vede, ripreso durante uno shooting fotografico per il suo sponsor, giocare con il suo ritratto cartonato a dimensioni naturali. Non riesce ad abbozzare un sorriso finto per la foto di gruppo, guarda nel vuoto, si aggira per il campo come fosse perso. Non sa recitare. È l’unico dei presenti all’evento a manifestare insofferenza per quella finzione, fatta dietro pagamento a favore del produttore di racchette: eppure, in campo, era ritenuto l’attore più abile di chiunque altro, nel mettere sul palco le sue sceneggiate. Ciò che molti scambiavano per antipatia o arroganza, probabilmente, era solo una manifestazione del suo perenne malessere. Il giovane fuoriclasse, schiavo del suo genio, sentiva su di sé il peso di tutto ciò che turbava il suo equilibrio, che fosse uno spettatore che tossiva o un giudice di sedia che si permetteva di interferire con il flusso della sua ricerca della perfezione chiamandogli fuori una palla, o facendogli perdere un punto perché il colpo dell’avversario era buono.
McEnroe, in questa ottica effettivamente sottovalutata, non insultava arbitri e giudici di linea perché rozzo e attaccabrighe (rozzo invero non lo era, attaccabrighe fuori dal tennis non risulta più del normale) ma perché la sua emotività e la sua frustrazione esplodevano di continuo, tanto da sopraffare anche la gioia della vittoria e fargli dimenticare ogni regola di convivenza civile. Semplicemente, andava in tilt. Del resto, si cerchino fotografie di McEnroe vincente che ride di gioia e soddisfazione con la coppa in mano, come un Nadal che addenta le orecchie del trofeo: resterete delusi. La maggior parte delle immagini restituisce un giocatore quasi infastidito, con gli occhi persi nel nulla, anche nel momento del trionfo. Come non fosse quello, il senso e lo scopo di ciò che faceva, e sperasse solo di svignarsela alla veloce. Verso la fine del film si scorge McEnroe sbagliare una prima di servizio all’inizio del terzo set, dopo che aveva brutalizzato il povero Lendl nei primi due. Un errore ininfluente in un contesto di dominio soverchiante, quasi comico per la disparità di classe. Eppure, il nostro scuote la testa, schifato e deluso, come se avesse appena buttato via tutta la partita. Non è una posa: in quel momento McEnroe è veramente schifato, perché ha fallito quel servizio. Eppure era un colpo che non avrebbe deciso alcunché, peraltro figlio di una magia della meccanica che, ancora oggi, si studia come un prototipo di Leonardo (de Kermadec provò a codificarlo, Faraut dà conto anche di questo studio) eppure non ci si dà spiegazione compiuta.L’impero della perfezione è una miniera di riferimenti: prezioso e sconosciuto ai più, tra i tanti, l’aneddoto sul luogo in cui fu costruito lo stadio del Roland Garros. Sullo stesso terreno su cui sorgono i campi costruiti alla fine degli anni Venti del ‘900, viveva un reparto di studi dell’eminente fisiologo Étienne Jules Marey: là, il medico francese scattò le sue prime cronofotografie, sequenze che costituirono l’antenato della immagine in movimento, cioè il film, strumento che permise di scoprire cose – cioè pezzi di realtà – che a occhio nudo sfuggono. A ricordo dell’istituto Marey, per inciso, rimane un bassorilievo ignorato dalla stragrande maggioranza dei tifosi che affollano i viali del Roland Garros, nei pressi del campo 1. Dove non si troverà mai un pannello con il nome di John McEnroe vincitore del singolare maschile. Perché quella partita, la più bella di sempre per due set sul Centrale di Parigi, John McEnroe non si accontentò di dominarla. Pretese di renderla perfetta fino alla fine e, alla fine, l’imperfezione vinse.