Il coach australiano, mentore di Simona Halep, ritiene che la possibilità di dare suggerimenti durante un match sia una buona cosa. Tuttavia, dovrebbe essere consentito più di una volta per set: “Soltanto così possiamo influire”. La norma non vale nel main draw degli Slam: “Per questo cerco di educare Simona a cavarsela da sola”.

Le affermazioni di Darren Cahill accompagnano l'inizio delle qualificazioni dello Us Open, in cui è consentito una sorta di coaching “remoto”. Secondo il tecnico australiano, attuale coach di Simona Halep (e che in passato ha ottenuto grandi risultati con Andre Agassi e Lleyton Hewitt), il coaching in campo è molto avvincente per il pubblico, ma affinché sia davvero utile dovrebbe essere ampliato. Cahill è anche opinionista per ESPN, dunque conosce bene i meccanismi di comunicazione: a suo dire, il coaching coinvolge gli spettatori perché consente di accedere a conversazioni altrimenti riservate. “Credo che sia un bene per la TV – ha detto a Cincinnati, dove era al seguito della numero 1 del mondo – ed è buono anche per il pubblico: in pratica, è quello che facciamo quando i nostri allievi si allenano, e tra un punto e l'altro discutiamo di vari aspetti”. Come è noto, il coaching è consentito soltanto nel circuito WTA (anche se fu proprio l'ATP a sperimentarlo una ventina d'anni fa, peraltro abbandonando il progetto abbastanza in fretta). Le giocatrici possono chiamare il loro allenatore una volta a set, oppure quando l'avversaria si sottopone a un medical time out o usufruisce di un toilet break. Secondo Cahill, tuttavia, le norme sono abbastanza restrittive e difficilmente consentono al coach di influire per davvero. “Se la WTA volesse davvero dare spazio al coaching in campo, dovrebbe consentirlo più spesso, non soltanto una volta per set, in modo che sia davvero efficace – dice Cahill – con le regole attuali, normalmente la giocatrice ti chiama quando le cose stanno andando male. Inoltre le emozioni possono recitare una parte: a volte il messaggio entra da un orecchio ed esce dall'altro, perché l'unica cosa che la giocatrice vuole fare è lamentarsi. Se invece l'allenatore potesse intevenire più spesso, le conversazioni sarebbero più rilassate”.

AIUTARE A CAVARSELA DA SOLI
Il tecnico australiano (classe 1965, numero 22 ATP nel 1989), ritiene che una serie di informazioni filtrate in 60 secondi siano difficili da assorbire e utilizzare in partita. “Se invece ci fosse la possibilità di intervenire ogni quattro game, la conversazione può essere più efficace, rilassata. Si può davvero parlare di come sta andando la partita”. In virtù di questa consapevolezza, Cahill ha impostato lo stile di coaching da adottare con la Halep. Il suo obiettivo è aiutarla a risolvere il problema sa sola, in modo da non aver bisogno di un aiuto esterno. “Credo che il coaching abbia grandi potenzialità, ma negli Slam non è consentito – prosegue Cahill – per questo, è importante che i giocatori sappiano cavarsela da soli. Negli ultimi due anni sono intervenuto sempre meno con Simona, e devo dire che è migliorata molto. Lei sa perfettamente cosa le dirò, perché ha una straordinaria comprensione del gioco. Tuttavia, credo che le piaccia ascoltarmi solo per rinforzare il messaggio. A volte va bene, perché la strategia funziona. A volte va male, perché può prendersela con me se le cose non funzionano”. Il tennis è uno sport individuale e, per natura, solitario. E allora capita che la giocatrice chiami il coach per fuggire dalla solitudine della competizione. “Vi assicuro che la mente di un tennista è molto complicata – conclude Cahill – lo abbiamo vissuto tutti perché il tennis è uno sport solitario. Sei bloccato sul campo, in una lotta a distanza, uno contro uno, e non hai nessuno con cui parlare. Eppure a volte ci sono 10.000 persone che ti guardano”. Nelle qualificazioni dello Us Open, il coaching è consentito anche tra un punto e l'altro, ma soltanto quando il giocatore si trova dal lato in cui si trova il suo allenatore. In caso contrario, è possibile comunicare tramite gesti e segnali non verbali. Lo scorso anno, le Next Gen Finals di Milano hanno esteso la sperimentazione: ai cambi di campo, il giocatore poteva discutere via radio con il coach, mettendosi le cuffie alle orecchie. Inoltre, aveva a disposizione un tablet per dare un'occhiata alle statistiche.