TennisBest – 27 dicembre 2014
L’epica sgangherata dei migliori momenti comici di Fantozzi è stata ampiamente metabolizzata nel DNA di ogni italiano, quasi al punto che uno non può dirsi tale se almeno una volta in vita sua non ha detto: “Batti lei” giocando a tennis. Un’invenzione linguistica che ha preso il nome tipico di congiuntivo fantozziano. Quell’inconsumabile reverenza impiegatizia verso il potere (i superiori) diventa una reverenza ferita e conseguenza ne sarebbe l’abbassamento al tu (batti), ma poi la censura sociale ti mette in bocca sempre il lei. Batti lei. A quasi quarant’anni da quel grottesco servizio cinematografico è ancora così.
Filini: «Allora, Ragioniere, che fa, batti?». Fantozzi: «Ma, mi dà del tu?».
Filini: «No, no, dicevo, batti lei?». Fantozzi: «Ah, congiuntivo, aspetti…».
Era il 1975 quando Paolo Villaggio girava Fantozzi e la partita di tennis più nota del grande schermo italiano. La coltre di nebbia che avvolge quella scena aiuta a sprofondare in un ricordo. Quell’anno Adriano Panatta, venticinquenne, aveva già incassato successi internazionali, a Bournemouth nel 1973, a Firenze nel 1974, a Kitzbühel e Stoccolma nel 1975. L’anno dopo si sarebbe aggiudicato Roma (contro Guillermo Vilas… ma questa è roba che sanno tutti, fatti che si conoscono a memoria, come quegli 11 match point annullati al primo turno all’australiano Kim Warwick, tornato per una frazione di secondo, uscendo dallo stadio dei Marmi, un canguro).
A Paolo, che era solito invitare sul set alcuni amici tra cui Adriano, Panatta era stato già utile; gli aveva suggerito di ambientare la scena il mattino presto perché, lui lo sapeva bene, quello è l’orario dei poveri. I ricchi no, i ricchi scendono in campo non prima di mezzogiorno. Parlamentari e vescovi, come imprenditori e giornalisti, tutti amanti della racchetta, amano il caldo. Resta solo il campo delle sei del mattino per i Fantozzi. Meglio ancora se siamo in pieno inverno: “Filini fissò il campo da tennis per la domenica più rigida dell’anno. Dalle sei alle sette antelucane. Tutte le altre ore, man mano che si avvicinava il mezzogiorno, erano occupate da giocatori di casta sempre più elevata: direttori clamorosi, ereditieri, cardinali e figli di tutti questi potenti”. La consulenza tecnica di Adriano per quella scena è sotterranea, non si vede a occhio nudo, ma giurano entrambi – Villaggio e Panatta – che invece il suo tocco sia molto presente, fin da quando Paolo gli disse che stava scrivendo una scena di tennis, e allora Adriano volle vedere la sceneggiatura e cominciò a ridere da solo, arrivato a questa descrizione: “Abbigliamento di Filini: gonnellino pantalone bianco di una sua zia ricca, maglietta Lacoste pure bianca, scarpa da passeggio di cuoio grasso, calza scozzese e giarrettiere, doppia racchettina liberty da volano. Fantozzi: maglietta della Gil, mutanda ascellare aperta sul davanti e chiusa pietosamente con uno spillo da balia, grosso racchettone 1912, elegante visiera verde con la scritta: Casinò municipale di Saint-Vincent”. Ecco, “mutanda ascellare aperta sul davanti e chiusa pietosamente con uno spillo” deriva da un aneddoto di Adriano che però minaccia l’editore di non pubblicare, pena la morte. Anche se, insomma, nell’autobiografia di Andre Agassi – il campione americano – si narra che una volta fu costretto a giocare senza mutande e vinse, e siccome squadra che vince non si cambia, da allora giocò sempre senza. Ecco, anche Adriano, una volta… solo una volta, aveva una spilla da qualche parte, non visibile.
La scena fantozziana può passare agli annali anche come la scena più breve di tennis, perché non si gioca neanche un 15: Fantozzi-batti-lei si accinge a servire, lancia la palla, alza la racchetta e se la dà violentemente in fronte, cadendo al tappeto, mentre Filini, sempre all’oscuro di tutto dietro ai suoi occhiali spessi come lastre di ghiaccio, esulta. Ha appena vinto il match senza aver toccato una palla (cosa che conferma una certa analogia tra tennis e boxe, non a caso Rino Tommasi è cultore di entrambe le discipline: il tennis è una boxe mediata da una pallina, un corpo a corpo separato da una rete. Che tu sia un tennista o un boxeur imparerai presto una cosa strana, che le gambe sono più importanti delle braccia, anche se a prima vista sembra tutto l’inverso). Tuttavia Adriano ci provò a convincere Paolo che non poteva trattare il tennis come la boxe, che nel tennis non esiste il KO. «No, ma esiste il ritiro» fu la risposta prematuramente apocalittica. Diciamo che Paolo utilizzò Adriano come coreografo di scena, facendosi spiegare per decine di minuti come prendere la racchetta, come effettuare il lancio di palla, come portare l’attrezzo dietro la testa, come… salvo poi fare esattamente il contrario e risolvere la scena con quel colpo di genio del batti lei sulla testa. Fine. Ma è lì che Paolo s’innamorò del tennis, lì che, ultimate le riprese, afferrò il braccio di Panatta, e gli disse: «Una volta portami con te a Wimbledon». In quel momento Adriano prese la cosa alla leggera, non c’era motivo di rifiutare, pensando inoltre che, come capita spesso, tante cose che si dicono poi non si fanno.
Passano quattro anni. Intanto Panatta diventa una star mondiale del tennis: vince Roma, Parigi, Houston, Tokyo, va in finale a Barcellona dove trova Borg che lo ferma, torna in finale a Roma nel ’78, e ritrova Borg. Resta l’unico giocatore ad aver battuto lo svedese agli Open di Francia, e per ben due volte, nel ’73 agli ottavi e nel ’76 ai quarti.
Cose dette, stradette, risapute, tanto che uno rischia di darle per scontate, che è un modo come un altro di dimenticare. Paolo Villaggio in quello stesso periodo gira qualcosa come tredici film. Un’impresa abbastanza mostruosa… Il secondo tragico Fantozzi, e poi alcune pellicole con Sergio Corbucci, altre con Luciano Salce… Il duo Villaggio-Panatta è nel pieno della propria affermazione.
La prima volta che Adriano, da professionista, calpestò l’erba inglese con le scarpe da tennis era il 1970, l’ultima il 1980, mentre la più dolorosa fu quella del 1979, quando sentiva sicura la finale, e invece perse con il meno talentuoso Pat Dupre, meritandosi il rimprovero sotto la doccia di Vittorio Gassman.
Panatta ha avuto modo di meditare a lungo sulle caratteristiche di quel torneo che è insieme il più amato e il più odiato. Racconta che è classista, c’è uno spogliatoio per quelli forti e uno per quelli scarsi (lui ha avuto l’onore di passare tra quelli forti nel 1972), e che nel 1968, quando partecipò da juniores, lo fecero cambiare in un magazzino. Causa pioggia, si passa più tempo negli spogliatoi che in campo, e se non sei testa di serie, non hai possibilità di allenarti sui campi di Wimbledon, ma devi andare in giro a cercare erba altrove (cercare campi in erba, a uso personale). Che tra l’altro non era la sostanza, ehm, pardon, la superficie più amata da Panatta, che preferiva pattinare sulla terra rossa e arrivare sulla palla scivolando, e gli era più congeniale il rimbalzo regolare, cosa che l’erba non offre, anzi. Ma c’è un rammarico nel rammarico, che nessuno conosce, in quell’edizione di Wimbledon: se Paolo non se ne fosse andato prima dell’incontro con Dupre, forse, a questo punto – pensa in gran segreto il tennista – poteva esserci anche il nome di Adriano Panatta impresso negli annali dello Slam più prestigioso. Perché quell’anno fece capolino anche Villaggio a Londra, e finché c’era lui le cose andarono bene, poi invece…
Faccia d’erba
Londra, albergo Gloucester, estate ’79. Un uomo con una tunica bianca e un cappello color paglia varca la soglia dell’ingresso, diretto con fare sicuro verso il portiere.
«Can I have my room?»
«What’s your name, Sir?»
«Villaggio, Paolo Villaggio.»
«We don’t have any room for him.»
«Why?»
«There isn’t. Sorry.»
«Are you sure?»
«Yes, there is no reservation in the name: Paolo Villaggio.» «Mmh, remember, remember bene questo nome, rimembralo bene.»
Paolo vive un momento di adirato scoramento, un umore che gli si confà spesso e si piazza sulla poltrona della hall del celebre albergo, dove alloggiano tutti i giocatori. È primo pomeriggio. Sta lì, non sa che fare, Adriano gli aveva assicurato che avrebbe pensato a tutto lui. Finisce un’intera insalatiera di arachidi messa lì per quelli che si sarebbero potuti fermare qualche minuto, non solo per lui. Dunque si alza. Torna dal tizio e gli chiede di passargli “Mister” Panatta al telefono ma “Mister Panatta sta al Master”. Sospettando una velata presa per il culo, Paolo dice che se non lo trova entro due minuti chiama il “Minister”. Il portiere non afferra la minaccia, e si finge impegnato in altre faccende, non prima di chiedere a Villaggio se ha gradito le loro arachidi. Paolo fa una faccia come a dire “meglio di niente”. Se vuole aspettare Mister Panatta, che in genere rientra verso le diciannove, dice ancora il ragazzo, le faccio portare la nostra specialità, altro che noccioline. Preso per la gola, Paolo, momentaneamente addolcito, si risiede. Poco dopo gli arriva una coppa di fragole con panna. Paolo si chiede se per caso non si trovi improvvisamente a Nemi. Vista la sorpresa, il cameriere gli racconta che il bianco non è l’unico colore gradito all’All England Lawn Tennis and Croquet Club – il complesso sportivo che ospita il torneo di Wimbledon – ma anche il rosso fragola, una tradizione che risale al 1877. Bianco, rosso e verde: c’avete rubato la bandiera, dice Paolo, mentre affonda compiaciuto coi baffi nella panna. Devono essere davvero gustose se Novak Djokovic in tempi recenti ha twittato: “Non vedo l’ora di giocare sui campi di Wimbledon, di vedere il Big Ben e di mangiare le fragole con la panna!”.
La porta girevole del Gloucester tira dentro prima un borsone con la scritta WIP, e poi un ragazzo coi capelli lunghi e neri. Di balzo Paolo gli va incontro.
«Non c’è posto per me.»
«Paolo, ben arrivato!»
«Ben arrivato un cazzo: non c’è posto per me.»
«Ma se ho prenotato io…»
«A che nome?»
«A nome mio.»
«Ah.»
«Vedo che non hai perso tempo» dice Panatta fissando un punto della camicia di Paolo.
«Sono tre ore che ti aspetto: è colpa tua se mi sono macchiato con le fragole.»
Per fare bene i doveri di ospite, Adriano chiama il servizio lavanderia, chiede se possono pulire la camicia di Paolo per la sera stessa perché hanno una cena importante e sa che Paolo a quella camicia ci tiene, poi spedisce l’amico in stanza a riposare. Mentre va verso l’ascensore, John McEnroe fa a Panatta: «Hey, Adrian, who is that strange man?».
«Strange… Senti chi ha parlato.» «Eh?»
«Why strange, John?»
«Why? He ate all the peanuts!» «Not strange: is a strategy.»
«But, who is?»
«My coach, my new special coach.»
McEnroe, che quell’anno sarebbe uscito al quarto turno per mano del connazionale Tim Gullikson, è perplesso, ma la sicurezza di Panatta l’ha convinto: Paolo Villaggio è il nuovo allenatore di Adriano? “Cazzi suoi”, questa la traduzione letterale del mancino.
Poco dopo dalla room 404 Paolo si fa passare la room 507 dove Adriano si sta facendo la doccia e allora fatica un po’ a raggiungere la cornetta.
«Ho fame.»
«Le hai già digerite?»
«Cosa, le fragole?»
«Mi hanno detto che ti sei svuotato una vasca di arachidi.»
«Disgustose.»
«Pensa se ti piacevano…»
«Qui si mangia di merda, gli inglesi non sanno cucinare.» «Non ti preoccupare, ti porto in osteria.»
«Mi stai prendendo in giro?»
«No, mettiti bello, te l’hanno portata la roba lavata?»
«Sì.»
«Allora mettila e fammi finire la doccia.»
L’Osteria San Lorenzo a Londra è il tempio del cibo italiano, particolarmente frequentata dagli atleti nei giorni del torneo. Viene descritta come un ristorante di “classic italian food, founded in 1963 by Lorenzo and Mara Berni”. Lorenzo e Mara, due figure mitiche di quegli anni: lui toscano, lei piemontese, nella città inglese si sono conosciuti, si sono poi sposati, hanno aperto una trattoria toscana, mettendo la cucina all’ingresso, in bella vista, e hanno trasformato il retro del locale in un giardino d’inverno da magione biellese.
Un taxi inglese aspetta Paolo e Adriano davanti all’albergo, entrano, Panatta dice: «Beauchamp Place». L’auto parte lentamente.
«Dove stiamo andando?»
«Te l’ho detto, al San Lorenzo.»
«Ah, un santuario. Non è un posto squallido, vero?»
«Ah, ah, ma che squallido: sai chi ce va?»
«Chi?»
«Che ne so, io c’ho visto Elton John, per esempio.»
«Il mancino?»
«Sì… Quello che la pallina la fa cantà…»
«E l’hai battuto?»
«Come no: abbiamo fatto a gara di spaghetto al pomodoro.»
«Vabbè, a parte Elton? Voglio capire la levatura del locale, sai io sono complesso.»
«Ma se t’attacchi pure alle noccioline!»
«Peanuts, please.»
«Sorry. Comunque che ne so, la Barbra Streisand, anche i Rolling Stones…»
«See, pure la duchessa di Kent, adesso.»
«Allora lo sai.»
«Cosa so?»
«Be’, si dice che ci venga anche lei…»
«La duchessa di Kent?»
«Eh.»
«Ma non mi fare ridere.»
«Dicono, io non l’ho mai vista.»
«Non mentire: secondo me le piacciono gli italiani come te.»
«Ma non dire cazzate. Ecco, siamo arrivati.»
Lorenzo saluta con gran calore Adriano che a sua volta gli presenta Paolo come “a big italian actor”. Lorenzo sorride e dice “I know”, poi gli indica il tavolo, anche se prima Panatta vuole salutare Mara, che sta lì, nella cucina a vista, che dà a questo locale un clima molto familiare, come se si entrasse in casa di un amico. Mara Berni (che quando si è spenta, nel 2012, ha meritato diversi articoli in memoria, persino sul “Telegraph”, che l’ha descritta come una donna molto discreta, cui piaceva raccontare che i Rolling Stones suonavano il campanello alle tre del mattino, e le chiedevano di cucinare loro la cena dopo una sessione di registrazione a tarda notte) si asciuga le mani sul grembiule e saluta Adriano come un figlio. Fanno due battute con Paolo che s’innamora per così dire della sua riservatezza pettegola, del resto Adriano mi ha parlato tanto di te, le dice, fingendo.
«Paolo non crede a quella storia» dice Adriano.
«Quale storia?» chiede Mara.
«Quella dell’ambasciatore.»
«Ma dài, te l’ho raccontata mille volte.»
«Signora Mara, io non l’ho mai sentita e sono un fanatico delle storie di ambasce.»
«Va bene: ma faccio in fretta che c’ho tutto esaurito stasera.»
«Sì, sì.»
«C’era quest’ambasciatore italiano a Londra, un tipo distinto, con una bellissima moglie e sei figli, che veniva spesso qui a mangiare.»
«Tutto qui?»
«Aspetta. Aveva anche un’amante: bella ma supertruccata, troppo make-up, e il troppo stroppia.»
«Stroppia.»
«Ecco, una volta venne con lei al San Lorenzo. Due ciglia finte che arrivavano fino a qui.»
«Eh… e che erano ali?»
«Giuro.»
«Su San Lorenzo?»
«Simpatico il tuo amico, Adrian…»
«Eh, lo credo, is a big italian actor!»
«Smettila, raccattapalle!» fa Paolo. «Insomma, siamo rimasti alle ciglia.»
«La sorprendo mentre una ciglia le cade nel piatto che aveva sotto il naso, una zuppa, non ricordo di che.»
«Orrore. Non è che serve zuppa di ciglia stasera?»
«No, no. Però sarebbe una buona idea, ne devo parlare con Lorenzo.»
«Andiamocene» dice Paolo.
«Mara sta scherzando, Paolo.»
«Sto scherzando. Però quello che vi dirò adesso risponde a verità: insomma, la vedo che fa finta di niente, ma si rende conto che non può stare con una ciglia sì e una no.»
«E allora?»
«Allora si stacca anche l’altra, e sai dove la nasconde?»
«Non mi dire.»
«Nella zuppa! Sì: e l’ha mangiata. Ha mangiato zuppa di ciglia. Buona cena ragazzi.»
«Povero ambasciatore.»
«Del resto, non porta pena.»
«Però fa schifo.»
La lunga leva articolare di un uomo arriva come una pala sulla spalla di Panatta.
«Guillermo!»
«Guillermo un cazzo, è mezz’ora che v’aspettiamo!»
«Ti presento Paolo Villaggio.»
«Piacere, Guillermo Vilas.»
I due si stringono la mano e raggiungono il tavolo a loro assegnato nel giardino. La sera è mite, il chiacchiericcio modesto del locale è brusio piacevole, Lorenzo porta una bottiglia di vino piemontese come benvenuto.
«E lei chi è?» fa Paolo sedendosi al tavolo dove un altro uomo già divora un grissino.
«Sono Ilie.»
«Ilie e basta?»
«Paolo, non l’hai riconosciuto?»
«Dev’essere il buio.»
«Sono Nastase, Ilie Nastase. E invece lei, chi è?»
«Sono Villaggio, Paolo Villaggio: il nuovo coach di Adriano.»
«Hai un nuovo coach?»
«Sì, solo per Wimbledon: lui è un esperto di erba.»
«La faccia ce l’ha» dice Vilas.
«È un complimento?» fa con sospetto Villaggio.
«Sì, sicuro: faccia d’erba» conferma Nastase.
La prima portata è un antipasto misto all’italiana, la seconda crudité con bagna cauda. I quattro chiacchierano amabilmente, ognuno con accenti diversi, l’argentino di Vilas si mescola al romeno di Nastase, al ligure di Paolo, al romanesco di Adriano. «London is caput mundi» dice Vilas al quarto brindisi.
«Guillermo, ma che c’hai da ride’ stasera che il lametta t’ha buttato fuori?»
«Il chi?»
«Wilkison, un giocatore molto… tagliente.»
«Ah, ah. Menomale, non ne potevo più di brucare su quel campo.»
«Al secondo turno è già sfacelo» dice Nastase, «escono fuori certe breccole…»
«Breccole è un termine romeno?»
«È per questo» s’inserisce Paolo «che ho suggerito a Adriano di anticipare i tempi d’esecuzione dei fondamentali, colpendo di controbalzo.»
«Ma devi avere due gambe di riserva» nota Vilas.
«Ho preparato Panatta per tutto l’inverno, non vedo il problema.»
Panatta ride sotto i baffi, che non ha. Questa cosa di Villaggio allenatore, venuta in mente a entrambi, in due momenti diversi, lo diverte, come lo diverte l’idea che si reggono il gioco con grande spontaneità. Torna Lorenzo per chiedere cosa vogliono mangiare.
«Stasera abbiamo un delizioso risotto di asparagi, o le nostre pennette al pomodoro e basilico, che sono le preferite della regina…»
«La regina s’accontenta di poco» commenta Paolo, Lorenzo sorride e prosegue.
«Passando ai secondi, un filetto di branzino su foglie di spinaci e letto di crema di patate, oppure petto di pollo con riduzione di aceto balsamico, anche questo servito con crema di patate.»
«Per Adriano» sentenzia Villaggio «il pollo ma senza riduzioni, senza patate, senza olio, grazie.»
«Ma Paolo, scherzi? Domani manco gioco!» si lamenta Panatta.
«Tu fai quello che dico.»
«E per gli altri?»
«Tutto il resto, grazie» fa perentorio Paolo, lasciando gli astanti ammutoliti.
Adriano cercherà di rubare invano dai piatti degli altri, bacchettato con la forchetta sulla mano dal coach, integerrimo quanto divertito dentro.
«Ma tu non giochi a Cleveland, tra poco?» chiede Adriano a Nastase.
«Oh yes, ma non c’è fretta.»
«No, infatti, è dietro l’angolo.»
«C’è tempo.»
«Stamattina t’ho visto verso il campo 15…»
«Sì, sono andato a curiosare, c’era un ragazzino fenomenale. Un tedesco, roscio, con un servizio che è una bomba.»
«Quanti anni ha?»
«Dodici.»
«E già serve forte?»
«T’ho detto, una bomba.»
«E come si chiama?»
«Mi pare Boris.»
«Boris e basta?»
«Boh, Boris Backer, o Bucker.»
«Becker?»
«Eh, Becker, può darsi.»
«Sì, anch’io l’ho visto» dice Paolo mentendo, «fa impressione.»
«A proposito, che ve ne pare del vichingo di merda?»
«A proposito di che?»
«La parola “impressione” mi fa pensare sempre a Borg» dice Adriano.
«Mi pare che sta in forma, Borg» dice Vilas.
«Anch’io sto in forma. Quest’anno posso farcela.»
«T’ho allenato per questo» chiude sicuro Paolo.
Tutto il resto ordinato da Paolo arriva insieme all’austero pollo ai ferri che il cameriere deposita con noncuranza sotto il mento di Adriano, costretto ormai alla pantomima della dieta. Piccione con la polenta, uno dei must del San Lorenzo, e poi bollito misto: ogni cosa tipicamente estiva. Dopo poco Mara, la regina del locale, s’avvicina al tavolo per controllare che vada tutto bene.
«Adrian, stai poco bene?»
«No, è la mia dieta» indica Paolo.
«Se è la sua perché la fai te?»
«Me lo chiedo pure io.»
«Signora Mara» fa Paolo per sviare il discorso, «vedo molte foto di Sophia Loren».
«È stata una delle nostre prime sostenitrici.»
«Socia?»
«No, ma quando venne per le riprese de La contessa di Hong Kong, capitò qui da noi e il giorno dopo i giornali titolarono, Sophia benedice il San Lorenzo, cose così; ci ha dato una bella mano. Una volta venne lei, sola, con dodici uomini.»
«Interessante» fa Nastase.
«Vi lascio mangiare.»
«No, la prego, ancora» supplica Paolo.
«Altro piccione? Faccio subito portar…»
«No, altri aneddoti, la prego.»
«Lo riconosce quello laggiù?»
«Oh, certo. Il Maestro!»
«Chi è, Paolo» domanda Adriano.
«Caprone: è il grande Maestro Michelangelo Antonioni.»
«Quello di Blow Job» dice Vilas.
«Blow up!» corregge seccato Villaggio.
«Davanti alle signore, certe parole!» rimbrotta Nastase.
«Non vi preoccupate. Il Maestro questa battuta l’ha sentita tante di quelle volte…»
«C’ha fatto la bocca» dice Adriano, non senza rendersi conto, subito dopo, di non essere uscito fuor di metafora. «Già. Pretende che tutto gli sia servito tagliato in piccoli pezzetti.»
«Interessante» fa Nastase.
«Un’ultima cosa» chiede Villaggio. «Qual è il piatto preferito di Fellini?»
«Ah, prende sempre pasta al pomodoro e bistecca T-Bone.»
«Le porti anche a me.»
«Ma Paolo, hai già mangiato» nota Adriano.
«Non ti riguarda.»
«Infatti, non mi riguarda: io sto col pollo, mortaccitua» dice all’orecchio di Paolo.
Un paio d’ore più tardi, a cena finita, Nastase tira fuori la carta di credito. Lo segue Vilas. Per non essere da meno, la sventola anche Adriano. Ma Mara ricorda loro che il San Lorenzo non accetta carte. È vero, non se lo ricordavano. Guardano spontaneamente tutti Villaggio.
«Sono l’unico ad avere contanti? Ah vabbè, come siete umani voi…»
Quella mattina londinese è piena di sole, e così Villaggio, già sul presto, bussa alla 507: «Dobbiamo andare all’All England Club», sentendosi rispondere da dietro la porta: «Dov’è che vuoi andà?». Nella 507 c’era qualcuno che alle otto avrebbe preferito dormire ancora almeno un paio d’ore. L’odore di erba tagliata è quasi nauseante, ma si mescola alla fragranza tipica delle palline da tennis. Mai vista tanta gente in fila, una fila ordinata, pensa Paolo, che con una gioia inedita accetta la coda. Adriano lo guarda commosso: è la prima volta che Villaggio gli appare come un diligente scolaro.
«Non vorrei rompere l’incantesimo, ma mica vorrai fare la fila per davvero?»
«Ah no?»
«Macché, dobbiamo andare di là, per il badge.» Attraversano un corridoio laterale e raggiungono un ufficio secondario, dietro una vetrata due uomini vestiti come principi di Galles, ma con un cappello da tranvieri, consultano delle scartoffie.
«Good morning. I’m Adriano Panatta. Can I have a pass for my father?»
«Father due palle» dice Paolo.
«Zitto, lasciame lavorà.»
«Just a moment, please.»
«E chi se move.»
L’uomo dietro al vetro si consulta con l’altro, seduto alla scrivania. Dice: «Henry, Panatta ci sta prendendo per il culo. Vuole farci credere che quel tizio è suo padre così che noi gli concediamo un badge. Cosa prevede il protocollo in situazioni simili?».
Intanto Villaggio, nell’attesa, fruga nella borsa di Adriano, sfila una racchetta e una pallina e si mette a palleggiare da solo. Passa un tizio che sulle prime lo guarda male, Adriano si volta e dice a Paolo di smetterla, che non siamo in spiaggia a Ostia, e qui non si gioca a racchettoni. Ma l’uomo sorride e dice a voce alta: «Villaggio!». Panatta fa cenno di non farsi sentire dai tizi dell’ufficio, ha paura che lo scoprano. Ma l’uomo non afferra e continua.
«I’ve a delicious cottage in Maremma, I love Italy, I love pizza and your movies, I love Fantozzi!»
«Come è caro lei…»
Dalla vetrata i due burocrati dei pass osservano a braccia conserte. Il tizio innamorato di Fantozzi sta recitando a memoria intere scene dei film, un supplizio per Paolo; Adriano, invece, un po’, non troppo, si diverte. Villaggio gli fa presente d’avere un problema. Quale problema, chiede il maremmano inglese. Il pass, il badge. Culo vuole che il maremmano sia un superiore dei due burocrati e dice loro di saltare la trafila, che fa da garante lui: si fa passare un cartoncino legato a un nastro, ci scrive qualcosa, lo mette poi al collo di Paolo, come fosse una corona di fiori. Adriano legge sul cartellino: Fantozzi. Ride, poi prega di correggere la scritta.
«Mi raccomando, qui mi conoscono tutti e sono un po’ rigidini.»
«Ho visto.»
«Bisogna rispettare un certo galateo.»
«L’ho scritto io il galateo, stai tranquillo.»
«Immagino.»
«Dove sono gli spogliatoi?»
«Perché?»
«Tu dimmelo e io ti do lezione di galateo.»
«Lì, prendi quel viale e poi gira a destra: io vado a prendere un caffè.»
«Al massimo un tè.»
«Mi sa che c’hai ragione.»
Paolo entra in quello che in ogni altra parte del mondo chiameresti spa, ma a Wimbledon è appena uno spogliatoio. Lì tutto sembra d’oro, tutto riverbera lusso e meraviglia. Apre la sua sacca, ne cava un completino da tennis primo Novecento, però lindo, immacolato, d’un bianco detersivo luminoso. Tutti a dire “Ohh, ce l’ha più bianco del nostro, oh quanto ce l’ha bianco…”. Egli ne è talmente orgoglioso che si gonfia come un pavone.
«Come fa ad averlo so white?»
«Scusi, chi è lei?»
«Je suis Lacoste.»
«Sì, e io sono Sergio Tacchini.»
«Sergio, ti ricordavo più… Vabbè, lasciamo perdere.»
«Senta mister Lacoste, non è che produce anche scarpe?»
«È evidente» dice Jean-René, mostrando orgogliosamente una scarpetta calzata, coccodrillata.
«Belle. Ecco, ne ha un paio 42?»
«Come?»
«Ora non posso pagarle, ma le faccio un bonifico appena rincaso.»
«Le occorrono davvero, mister Tacchini?»
«Ho dimenticato le mie, sono costernato.»
«Ora, io ho il torneo vecchie glorie fra tre ore…»
«Gliele riporto tra due.» Paolo non se lo fa ripetere e rapido le infila, uscendo come un ladro di galline dagli spogliatoi. Quando arriva sul campo dove dovrebbe esserci Adriano ad allenarsi, lo trova deserto. Paolo è solo nel suo completo bianco, le scarpe lilla di Lacoste. Si siede con professionale imperturbabilità su una panca. Un signore lo raggiunge, si accomoda accanto a lui, come in quelle scene in cui uno sta lì a mirare l’orizzonte e una seconda figura, gentilmente, gli s’appaia, spezzando la solitudine del coach. Il signore dopo qualche secondo di silenzio osserva che quest’anno i campi sono più veloci. Che l’erba è compatta ma più pastosa, sembra erba di pianta grassa. E che ha visto Panatta in ottimo stato, e che è l’unico che può impensierire il suo Borg. È Lennart Bergelin, allenatore del vichingo de mmerda, come ama schernirlo Adriano. Si è recato lì per un confronto tra coach, qualcuno gli ha detto che Panatta si faceva accompagnare da un nuovo allenatore.
«Dottor Bergelin, è tutto l’anno che lo alleno per questo torneo.»
«Non sapevo che Adriano avesse cambiato uomo.»
«Solo per Wimbledon.»
«Lei è uno specialista?»
«Non vede la faccia? Faccia d’erba; lo dice anche Nastase.»
«Ah, se lo dice Nastase.»
«E Vilas.»
«Vilas.»
«Comunque non si aspetterà che io le faccia delle confidenze?»
«Quelle sulla sua vita interiore non mi interessano.»
«Peccato, erano le uniche cose che potevo dirle.»
«Allora me le dica.»
«Sento aria di paura svedese.»
«Lei ha proprio la faccia d’erba, questo sì metterebbe paura a chiunque.»
«La ringrazio.»
«Ci vediamo in finale.»
«Può contarci.»
Bergelin, così come s’è presentato, svanisce. Paolo, così come stava, sta: seduto sulla panchina, con un’espressione inutilmente concentrata. Passa poco che un vero vichingo con fascetta in testa su capelli lunghi e la barba d’un mese entra in campo. Poggia la borsa, estrae la racchetta, si scalda un po’, si guarda intorno: non c’è nessuno se non Villaggio. Allora Borg lo punta e dice: «Tu». Paolo si guarda alle spalle, sicuro che il campione non ce l’abbia con lui, ma deve presto constatare che non può esserci equivoco, ce l’ha con lui. «Tu, fai due scambi?» Paolo non se lo fa ripetere, saltella come una libellula sull’erba del campo 9. Non ha la racchetta. Cosa già anomala: non avere una racchetta a Wimbledon è come salire su un aereo di paracadutisti senza paracadute. Borg gli porge una delle sue. Paolo si posiziona, porta l’attrezzo davanti a sé, afferrandolo con entrambe le mani, divarica leggermente le gambe, come ha visto fare a tanti giocatori veri. La pallina s’avvicina a lui, ma la troppa attenzione lo rende immobile sulle gambe, e una tardiva apertura combinata a un rimbalzo da erba gli fanno fare un liscio clamoroso. Si scusa. Borg dice che non c’è problema, gli chiede chi sia. Sono il coach di Panatta. Il coach di Panatta? È sorpreso, molto sorpreso. Gli serve una seconda pallina, Paolo questa volta la intercetta col dritto, ma colpisce con troppa forza e con l’impugnatura del rovescio. Il risultato è che si alza un terra-aria che finisce fuori campo, afferrato quasi miracolosamente da Panatta.
«Che stai a fa’ lì?»
«Due scambi con questo ragazzo.»
«Da quant’è che c’hai un nuovo coach, Adriano?»
«Fatti miei, vichingo» fa giocosamente Panatta.
«È in gamba. Mi ricorda qualcuno, però…»
«Guarda: non ho la faccia d’erba?» dice Paolo a Björn.
«Fammi vedere: a me sembra più una faccia da culo.»
«Dài Paolo, facce scaldà un po’. Ah, belle scarpine.»
«Lacoste, sono in prestito.»
«Tu sei tutto matto.»
«Anzi, ho promesso che…»
Paolo si toglie di mezzo e corre a cercare Lacoste, a cui ha sottratto le scarpe per tre ore, che sono già passate. Arriva negli spogliatoi, ma non c’è. Corre come può tra i campi, non sa dove sia finito il signor Lacoste. Poi vede un gruppo di fotografi attorno a tre attempati signori. Qualcuno che dice “I moschettieri”.
«Ma non erano quattro?» chiede a un avventore Paolo.
«Sì, certo, ma Jacques Brugnon è venuto a mancare da poco, lo scorso anno. Quindi quelli sono Jean-René Lacoste, Henri Cochet e Jean Borotra» fa notare una signorina, come se fosse costretta a spiegare la tabellina del 2 a Einstein.
Solo quando il capannello di curiosi si dirada, e la mitraglia dei flash si placa, Paolo può farsi vedere da Lacoste, mostrandogli le scarpe, indicandole con l’indice teso, facendo gesti che, decontestualizzati, ma anche contestualizzati, sembrano folli. Tanto che viene avvicinato da poliziotti in alta uniforme, che vogliono capire cosa stia succedendo. Lui spiega, ma è difficile dire a due sbirri inglesi, garbati e severi al tempo stesso, che hai preso in prestito le scarpe Lacoste dal signor Lacoste e che vuoi semplicemente ridargliele. Jean-René scorge la scena e fa cenno alle forze dell’ordine che è tutto ok, e invita Paolo ad avvicinarsi. I tre moschettieri sono vestiti come lui: hanno completi bianchi (con pantaloni lunghi) già démodé a fine Ottocento. Paolo sorride imbarazzato, si sente osservato, e in effetti i tre lo accerchiano, con le loro clave di legno in mano. Per liberarsi dalla condizione dice: cos’è, un torneo vecchie glorie? Borotra lo guarda storto, poi ride. Cochet confabula all’orecchio di Lacoste.
«Ci manca il quarto.»
«Lo so, condoglianze vivissime» dice Paolo con costernazione esibita.
«Per un doppio.»
«Ah, volete fare un doppio col morto?»
«No, con lei.»
«Lei?» fa Paolo.
«Lei» incalza Lacoste.
«Ho una certa avversione a fare il morto.»
«Su, qualche game, è solo per la stampa.»
«Ah.»
«Tornano i quattro moschettieri» dice divertito e impettito Borotra.
«E vabbè, se è per la stampa.»
Villaggio, e le ormai sue scarpette lilla, si piazza vicino a Lacoste, contrapposto a Borotra e Cochet. Qui, va messo alle cronache, qualche 15 lo fa, specie con maliziose palle corte cui nessuno bada, voltando le spalle ancor prima del secondo fatale rimbalzo. La gente radunata attorno al campo si affolla sempre più. L’anomalia è che Paolo s’accanisce: serve sempre più forte, e usa una violenza inutile in considerazione del fatto che ha davanti due pietre miliari del tennis, con almeno vent’anni più di lui. Lo spettacolo è tutto lì. Lacoste lo guarda con stupore, prova a dirgli “anche meno”. Ma lo dice in francese, lingua che Paolo mastica, ma fa finta di no in quel momento. È in trance agonistica. Infligge un doppio 6/2 a Borotra e Cochet che alla fine evitano la mano di Villaggio. Poi uscendo dal campo Borotra s’avvicina a Lacoste.
«Ma chi era questo?»
«Boh, un italiano che mi ha chiesto le scarpe negli spogliatoi.»
«Le scarpe?»
«Dice che le aveva dimenticate, che poi mi avrebbe pagato con un bonifico.»
«Un bonifico per un paio di scarpe?»
«Ma sì, dev’essere un mitomane. Però ha un bel rovescio.»
«Fottiti.»
«Guarda, Björn, che io arrivo in finale…»
Paolo raggiunge Adriano al ristorante interno dell’All England Club. Panatta è seduto vicino a un uomo, dotato di speciale parlantina, un giornalista. Il giorno prima ha battuto al secondo turno Jonathan Smith, in 5 set, tennista del Regno Unito, che quindi giocava in casa.
«Pare» sostiene l’uomo «che tutto il team fosse incazzato; di perdere davanti alla regina non va a nessuno.»
Panatta scuote la testa, si dice costernato, ma anche «che cazzo vonno, a me a Roma mica mi dà la precedenza nessuno…».
«In effetti» constata il giornalista, «non hai tutti i torti Adriano, ma vedi, qui siamo in Inghilterra: c’è qualcosa di religioso nell’aria legato al tennis.»
«Amen» dice Panatta.
«Oh, guarda» fa ancora l’esperto individuo, «c’è Paolo.» «Ciao Daniele.»
«Ciao Paolo, ma come sei elegante!»
«Sì, che te sei messo, raccontalo ad Azzolini.»
«Ho appena fatto due cose.»
«Prego.»
«Una: ho abbattuto due dei quattro moschettieri.»
«Complimenti. E poi vedo che hai acquistato delle deliziose scarpette lilla.»
«Sono in prestito.»
«Menomale, almeno puoi cambiarle.»
«E la seconda cosa?» domanda Azzolini con piglio giornalistico.
«Ho visto un uomo fortissimo coi capelli lunghi al campo numero 3.»
«Borg?»
«No, ha un nome che sembra uno scioglilingua.»
«Fammi pensare» dice Daniele, «ma al 3 oggi c’era Martina!»
«La Navratilova?»
«Sì.»
«Ho visto un uomo fortissimo: Martina Navratilova.»
«Il sospetto nel circuito aleggiò quando un rotocalco americano due anni fa pubblicò un referto medico secondo cui Martina era stata Martino. Con alcuni colleghi ne abbiamo discusso a lungo: io non ci credevo, altri sì, basandosi sul fatto che il referto arrivava da un medico di Praga, ex amante della madre di Martina/o. La mia tesi sull’infondatezza di quel pettegolezzo ruotava attorno all’idea che il medico di Praga volesse vendicarsi, o fare due dollari con una notizia falsa. Tuttavia…»
Paolo e Adriano scivolano dal tavolino, sgusciando via come pulcini dall’uovo rotto della conversazione, e lasciando Azzolini al suo verboso soliloquio. Adriano rimprovera Paolo che gli sta facendo fare troppe figure di merda, Paolo sente solo la voce della sua pancia; ha fame e il ristorante di Wimbledon fa schifo. Ma Panatta non si fa distrarre, ed elenca: le arachidi al Gloucester, il pollo ai ferri che gli ha fatto mangiare al San Lorenzo, il palleggio con Borg, la partita coi moschettieri: sono già un mare di figure di merda.
E lui ha bisogno di un minimo di concentrazione. È lì per giocare, che è il suo mestiere. Il giorno dopo incontra uno svedese che non è il vichingo, si tratta di Ove Nils Bengtson. L’incontro è equilibrato e anche se il risultato parla chiaro e Panatta non cede nemmeno un set, i tre parziali termina- no tutti al tie-break: Panatta batte Bengtson 7/6, 7/6, 7/6. Approda dunque agli ottavi, dove lo aspetta uno statunitense il cui nome ricorda più un cantante pop anni Settanta: Sandy Mayer. Il giorno dell’incontro arriva presto, e fin lì Villaggio è riuscito a darsi una ridimensionata in fatto di exploit tragicomici. Ha permesso un sereno allenamento a Panatta, e a parte un nuovo incontro con Lennart Bergelin, a cui in un angolo tra il campo 5 e i cessi ha detto: «Abbiamo fatto fuori uno svedese, i prossimi siete voi», provocando un sorriso non del tutto disteso dell’allenatore, ha fatto il bravo. Ha persino fatto pace con Borotra, invitandolo a un singolare dove con cavalleria e rispetto ha mostrato il fianco, uscendo sconfitto, anche se di misura. È però ancora ossessionato da una cosa: vuole vedere i reali da vicino.
«Te l’ho detto, non si può.»
«Come, non si può?»
«Non si può, è una cosa che fanno solo i giocatori.»
«Credo che una soluzione la troveremo.»
«È quello che mi preoccupa.»
Quando manca poco meno di un quarto d’ora all’incontro Panatta-Mayer, i due giocatori sono in attesa di entrare in campo; non tocca loro il privilegio d’essere portati sotto il Royal Box, per il tradizionale saluto che va fatto in direzione di chi siede lì: 74 posti d’onore, oltre la famiglia reale britannica; ci sono altri reali, capi di governo, personalità del tennis, forze armate… una concentrazione rara di potenza e fasto, di divise e rigore formale, insomma, sembra carnevale. Non tocca loro per il semplice fatto che è un rito del solo campo Centrale. E, col fiuto che lo contraddistingue, Villaggio si trova proprio sul Centrale, mentre Panatta e Mayer sono soli, alla ricerca di quella pace che precede la sfida. Paolo è lontano quanto basta per sottrarsi all’intervento di Adriano.
Così Villaggio, noncurante di quello che gli intimano le guardie, pretende di entrare dicendo di avere qualcosa di urgente da comunicare… al suo assistito. Lo bloccano. Gli spiegano che oggi Panatta non gioca sul Centrale. Lui comincia una tiritera in genovese stretto che non capiscono, gli fanno cenno di aspettare; cercheranno un interprete. Villaggio approfitta del momento e si produce in uno scatto demenziale verso il Royal Box, e a onor del vero, prima di essere placcato da altre due guardie della stazza dei migliori corazzieri, riesce a fare “ciao” con la manina alla regina. In meno di un secondo viene portato fuori, fuori dal Royal Box, fuori dal Centrale, fuori dall’All England Club. Adriano, ignaro di quanto accaduto, scende in campo. Per non perdere l’abitudine infila il suo quarto tie-break consecutivo e strappa a Sandy il primo set con un 7/6. Mayer affronta il secondo set forse ancora pensando alle sorti del primo, e così becca un 6/3. Nel terzo set torna più competitivo, ma Adriano ha un abbonamento al tie-break, e non c’è quattro senza cinque, e chiude: 7/6, 6/3, 7/6. È proiettato verso i quarti, sente in cuor suo che nessuno può fermarlo e che l’unico che gli darà filo da torcere, e nemmeno troppo, sarà Borg in finale.
Dopo il match, la doccia e tutto il post partita, Adriano domanda se qualcuno aveva visto Villaggio. Nessuno. Dopo un paio d’ore è il capo del servizio d’ordine che gli confessa di essere stati costretti a far uscire Villaggio fuori dal Centrale. In calzoncini e maglietta?, domanda con una certa compassione per l’amico. Già, così com’era. Panatta ringrazia, si fa per dire, e altro non può che tornarsene in albergo. È un po’ preoccupato perché sa che Paolo non ha potuto prendere nulla dagli spogliatoi, compreso il portafogli, e sono passate almeno quattro ore. E sarà di pessimo umore: cacciato e senza una lira per mangiare. Ma certo, sospira tra sé, se le va proprio a cercare. Quando rientra, la 404 di Villaggio è deserta.
Verso cena però uno scampanellio alla 507 sorprende Adriano in quel semi-sonno che segue la curva dell’adrenalina: dopo un incontro, all’inizio sei elettrizzato, poi ti spegni.
«Chi è?»
«Il defenestrato.»
«Ah, sei tu.»
«Ma che, dormivi?»
«Io? No, stavo a cantà.»
«Ah, mi dispiace, se vuoi torno più tardi.»
«Ma smettila. Entra. Dove cazzo sei stato?»
«Dove mi hanno sbattuto, cioè fuori.»
«Mi dispiace ma te l’avevo detto che non era il caso.»
«Trovo noiosi quasi tutti gli inglesi.»
«Che ce voi fa’.»
«Sono stato al parco.»
«E basta?»
«Lì c’era un gruppo di oldies.»
«De che?»
«Di vecchie. Vecchie signore. Piene di fragole.»
«Mi fa piacere.»
«Avevo fame.»
«E hai mangiato le vecchie o le fragole?»
«Entrambe.»
«Ah.»
«Abbiamo fatto un barbecue.»
«Fantastico.»
«E mi hanno raccontato tutte le loro vite, anche cose piccanti, intime. Matrimoni, figli fuori dal matrimonio, amanti…»
«Mentre facevate il barbecue. Tu e le vecchiette.»
«Quattro pimpantissime ex ragazze. Una faceva la giornalista e deve essere stata una bella donna. Dice che a Londra si faceva fatica a trovare uomini di un certo calibro.»
«È rimasta zitella?»
«Non lo so. Credo vedova.»
Adriano fa un gesto scaramantico.
«Che fai?»
«Mi gratto.»
«Non essere volgare. Vado avanti?»
«Non me ne frega un cazzo, ma se vuoi…»
«Se è così, lascio perdere, ma sono sicuro che potrei scriverci un telefilm sulla vita di quelle lì.»
«E come lo chiameresti?»
«Che ne so, non c’ho pensato, una cosa come Sex and the City.»
«Non male, non male. Ma non è che poi ti hanno portato a fare pratica?» «M’offendo.»
«Non farlo.»
«L’ho fatto.»
«Dovrei essere io l’offeso.»
«Perché mai?»
«Perché non mi hai chiesto nemmeno com’è andato il match.»
«E come è andato?»
«Ho vinto.»
«Lo sapevo. Vedi, sono la tua mascotte, finché ci sono tu vinci.»
«Eh, mi sa.»
«Domani riparto: non posso rientrare dopo la figura di oggi.»
«Ma dài, parliamo col tizio che ci ha dato il pass, quello che ti ama.»
«No, sono ufficialmente offeso. Me ne vado.»
«Ma come, poi gioco con Dupre, passo facile il turno… aspettami che vinco, no?»
«Te la caverai anche senza il tuo coach.»
E così fu. Non c’è stato nulla da fare. All’alba del giorno dopo Paolo Villaggio come si presentò dalla porta girevole del Gloucester, con cappello e tunica, sarebbe svanito dalla porta girevole del Gloucester, con la sua sacca di episodi londinesi, tra tennis e umanità villaggiesca. A Adriano ora non restava che affrontare Patrick Dupre, americano, classe 1954. Uno che non brillava particolarmente per risultati precedenti e per cui, anzi, i quarti a Wimbledon erano già un gran traguardo. Ma quello era il suo anno magico, e Panatta ancora non lo aveva scoperto.
La partita è stata raccontata come la più amara della carriera del nostro miglior campione di tennis. Perché tutto sembrava riuscirgli in quel mese, e gli avversari che lo separavano da una possibile finale con il rivale di sempre, Borg, non lo impensierivano più di tanto e nemmeno lo svedese gli sembrava insuperabile, anzi. Le cronache di quel 3 luglio 1979, sul campo Centrale dell’All England Club, parlano di una racchetta in legno marchiata WIP “che disegna volée micidiali, servizi vincenti, traiettorie imprendibili”, quando a inizio partita Adriano sta dominando “lo sgraziato americano Pat Dupre”. Sarà pure sgraziato ma è nei primi 20 del mondo, e tra giocatori di quella classifica può succedere sempre qualcosa. L’anno prima Panatta aveva battuto l’americano a Tokyo. A 35 anni di distanza da allora Adriano continua a dire che era convinto di vincere il titolo di Wimbledon 1979. Dopo Dupre, che dava già per passato, lo avrebbe aspettato un tale Tanner, americano che non lo impensieriva per niente. E riteneva il suo amico Björn Borg, nonostante fosse il numero uno al mondo, “il miglior avversario che potessi incontrare. Mi trovavo a meraviglia con lui e sapevo come fargli perdere il filo del suo infinito palleggio. Così, negli spogliatoi, quando lo incrociavo gli dicevo: ‘Guarda, Björn, che io arrivo in finale e tu lo sai cosa ti succede, no?’”. Dopo Roma, Parigi e la Davis, perché non aggiungere il trofeo sull’erba?
Villaggio, come molti italiani, quella partita se l’è vista in tv. Per un set e mezzo domina, portandosi 6/3, 4/1, lo spettacolo è unico su quel campo che lo stesso Adriano definisce come il “teatro mondiale del tennis”. Non a caso nel teatro mondiale del tennis quell’anno, da spettatore, c’era Vittorio Gassman, e non gli andò giù l’esito anomalo di quell’incontro. Non c’era più Paolo lì, al fianco di Panatta. Chissà quante vibrazioni nella testa di Adriano. L’inerzia del match cambia. Col senno di poi Panatta ammette che un che di superbo si era impossessato di lui e che era la prima volta che gli capitava. Pensava di aver già vinto e il tennis bastona i superbi, sempre. Dupre infila cinque giochi consecutivi, e vince il set. Si va al terzo in cui Adriano conferma l’abbonamento al tie-break e lo porta a casa: 7/6. Ma non è ancora finita, si gioca su cinque set. Il quarto lo strappa l’americano per 6/4. Siamo all’ultimo, il decisivo. Tutto quello che hai fatto fin lì non conta più, contano solo i prossimi sei giochi, e li devi conquistare, con lo scarto di due, sennò vai avanti. Il quinto set è la prova del corpo e dello spirito: se si sono dati appuntamento, bene, altrimenti torni a casa sconfitto. Paolo sta in piedi sul divano, la tv a un volume da discoteca. Ma a un certo punto, vista la lunghezza dell’incontro, la Rai interrompe la diretta da Wimbledon. Le parole di Villaggio non sono riportabili qui, anche per rispetto del servizio pubblico. Il collegamento non c’è più, è come una seconda rimozione, un altro passo via dalla sua mascotte per Panatta. Adriano si ripete in testa che non ha quasi mai perso al quinto, che è stato uno dei pochi al mondo a vincere Roma e Parigi, quando allora tra i due tornei su terra non c’era nemmeno un giorno di pausa, ed era tutta una scivolata dalla capitale al Roland Garros. Allora che è successo? Ti giochi tutto, è una lotteria, un gratta e vinci, se gratti bene. Ma Panatta fa l’errore che nessuno deve mai fare, non solo come sportivo, come uomo: pensa al passato, si fa sovrastare dall’ombra del secondo set, quando conduceva 4/1 e poi Dupre l’ha ripreso, lasciandolo inchiodato a 4, e chiudendo quindi 4/6 per lui. E mentre ci ripensa, l’avversario ha già in tasca il biglietto per la semifinale: vince 6/3. Il 1979 sarà l’anno migliore per Pat Dupre, e la vittoria numero quattro per Björn Borg, nel periodo di massimo dominio del tennista svedese. Se Paolo fosse rima- sto? In un angolo nemmeno troppo segreto della testa di Panatta, sotto il capello sempre flessuoso che lo caratterizza, resta il dubbio. Amen. Intanto e sempre, ogni vol- ta che i due, Panatta e Villaggio, si sono fatti due scam- bi, Adriano gliel’ha chiesto.
«Ti prego, Paolo, me lo fai?»
«Che cosa?»
«Il congiuntivo fantozziano.»
«Ancora?»
«Ti prego, mi fa troppo ride’.»
«Ok: dammi il la.»
«Bene: allora, Ragioniere, che fa, batti?»
«Ma, mi dà del tu?»
«No, no, dicevo, batti lei?»
«Ah, congiuntivo, aspetti…»