L’immagine di Matteo Berrettini che abbraccia Sinner appena dopo la vittoria dell’ultimo punto della finale e si scioglie in un pianto dice più di tante parole

foto Getty Images for Itf

Dopo il sorriso di Jas e il broncio di Botic, chiudiamo l’anno tennistico con un’altra riflessione sulla fisiognomica del volto umano, grazie alle lacrime di Matteo. Sono ormai storia le scene in cui il nostro Hammer, Matteo Berrettini, dopo la conquista del punto decisivo di Sinner nella finale di Davis, corre in campo piangendo e abbraccia prima Jan poi capitan Volandri.
Immagini commoventi, perché Matteo merita questa gioia e molto di più. Numerosi problemi fisici gli hanno infatti impedito di mettere a frutto tutta la sua talentuosa potenza negli ultimi tre anni, dopo il picco raggiunto nel 2021 con la finale di Wimbledon. In più, lo scorso anno sempre a Malaga aveva assistito dalla panchina al trionfo dei suoi compagni di Davis, non potendo prendervi parte per l’ennesimo infortunio… e così qualche giorno fa si è rifatto con gli interessi, vincendo match decisivi in ogni turno.
La sua sensibilità, sorella della sua potenza balistica, si è mostrata appunto nelle lacrime, linguaggio più eloquente di ogni parola. Non si può dimenticare, al riguardo, che nell’antica tradizione della Chiesa vi era addirittura un’orazione per ottenere il dono delle lacrime, considerate
come un balsamo prezioso. Ed è significativo che in uno dei suoi discorsi più celebri Gesù abbia proclamato “beati quelli che piangono”!
Ma cosa ci rivelano le lacrime, vera e propria visibilità dell’invisibile? Come vanno interpretate? Non sono forse un segno di debolezza, di contro alla presunta virtù dell’apatia e dell’atarassia, di quell’imperturbabilità che ci libererebbe dal tarlo della passioni?

Le lacrime sono per eccellenza polisemiche, dotate di innumerevoli significati: si piange di rabbia, di dolore, di angoscia, di pentimento, di commozione, di gioia… “Il paese delle lacrime è così misterioso”, fa dire Antoine de Saint-Exupéry al suo piccolo principe. Il pianto produce molto spesso una sensazione di sollievo, come sfogo benefico di emozioni a lungo represse. È come un colpo decisivo che mette fine a un lungo scambio sul rettangolo da gioco.
Quante volte abbiamo visto King Roger inginocchiarsi e piangere dopo la vittoria di uno Slam, immagini purtroppo un po’ stinte nella memoria. O chi può dimenticare il suo pianto irrefrenabile dopo la dolorosissima sconfitta per mano di Rafa agli Australian Open del 2009 (“Oh, God, it’s killing me!”), con lo spagnolo anche lui quasi in lacrime nel consolarlo? O ancora, chi non ricorda i due amici rivali mano nella mano e in un fiume di lacrime il giorno del ritiro dal tennis di Federer?
Mi piace pensare che Matteo abbia liberato nel suo pianto più potenza di quella espressa nei letali servizi e dritti con cui martella gli avversari. Ha così compiuto, a suo modo, ciò che affermava un anziano padre del deserto: “Ogni azione buona che l’uomo può fare è fuori del corpo, mentre
colui che piange guarisce anima e corpo”, interiorità ed esteriorità. Che le lacrime tonifichino anche i fragili muscoli del nostro caro Hammer, ma gli mantengano tenero il suo sensibile cuore: questo gli auguriamo per il nuovo anno tennistico alle porte.