Alla viglia delle finali dell'ATP Champions Tour, John McEnroe ha svelato al “Guardian” alcuni retroscena del rapporto con i suoi genitori. La figura forte è stata la madre, mentre il padre ha spinto affinché sviluppasse il suo enorme talento. “La mia grande fortuna è che non siano stati invadenti. Pensavano alla mia istruzione, mentre oggi è tutto diverso”.

Pensavamo di sapere tutto di John McEnroe. Personaggio planetario, si era messo (abbastanza) a nudo nella sua autobiografia “You cannot be serious”, ma raramente aveva parlato del suo rapporto con i suoi genitori, John Patrick Sr. e Kay. L'ha fatto alla vigilia delle finali dell'ATP Champions Tour, al via oggi presso la Royal Albert Hall di Londra. Non lotterà per il titolo, però giocherà tre match di esibizione: due volte contro Henri Leconte (già affrontato alla Grande Sfida di Bari), e poi contro Guy Forget. Alla vigilia dell'evento di fine anno, Mac ha parlato con il Guardian e, intervistato da Sarah Ewing, ha raccontato alcuni aneddoti sulla sua famiglia. Vale la pena riportarli, anche perché il rapporto tra tennisti e genitori non passa mai di moda. Lui lo sa, e ha ammesso di essere stato piuttosto fortunato.
 

“Ero un bambino molto timido, e anch'io ero educato. Chi l'avrebbe mai detto, eh? Sono il più grande di tre fratelli: Mark ha tre anni e mezzo meno di me, Patrick è più giovane di sette. Io e Mark litigavamo: mia madre diceva che saltavo su di lui senza pietà, come fanno i fratelli maggiori. Ma quando avevo 15 anni è cresciuto all'improvviso, diventando più alto di me, così ho deciso che era il tempo di smetterla di attaccarlo e di essere qualcosa di significativo per lui. Da allora ho sempre cercato di fare così. Con Patrick c'era un grande divario generazionale: quando ho raggiunto la semifinale a Wimbledon nel 1977, lui aveva dieci anni. Poi sono andato al college e diventato professionista, quindi per un po' non l'ho visto. Ci siamo ritrovati quando è cresciuto ed è diventato anche lui professionista".
 

“Nostra madre era il collante della famiglia, ma era molto severa. Credo lo sia stata soprattutto con me, visto che ero il primogenito. Ci ha detto che quando mio padre è andato a studiare legge ed è arrivato secondo su cinquecento, lei lo ha rimproverato: “Perché non sei arrivato primo?”. L'anno dopo è stato il primo: la morale è che voleva sempre il nostro meglio e che ci impegnassimo, perché sapeva che avevamo le qualità”.
 

“Mi sono spinto verso la perfezione. Quando a scuola non prendevo “A” mi capitava di piangere. Mia madre c'era sempre. Veniva a vedere le mie partite solo quando pensava che avrei perso. Voleva esserci per me se io fossi rimasto deluso".
 

“Mio padre mi ha aiutato a credere in me stesso. Ha svolto due lavori per provvedere alla famiglia, prima di diventare un avvocato. La cosa che gli piaceva di più era trascorrere il fine settimana insieme a noi e osservarci mentre praticavamo lo sport”.
 

“Purtroppo non ho avuto la possibilità di conoscere i miei nonni. Mia nonna paterna è morta di Alzheimer quando ero molto giovane, mio nonno paterno si è spento poco dopo. I genitori di mia madre si sono spostati in Florida quando ero in piena adolescenza. Stranamente, li ho visti di più negli anni da tennista, e mia mamma mi ha spinto a vederli il più spesso possibile prima che morissero”.
 

"Per quattro anni sono stato il capocannoniere della mia squadra di calcio alle scuole superiori, poi ho giocato a basket per due anni. Ma è successo che vivessimo a un isolato da un tennis club. Ci siamo associati come famiglia e ho iniziato a frequentarlo. Quando hanno notato il mio talento, mio padre mi ha incoraggiato a portarlo al livello successivo. Mi ha detto che avrei potuto farlo, che avrei potuto diventare il migliore. E' curioso che i miei genitori non abbiano mai giocato a tennis fino a quando io non ho iniziato a farlo seriamente".
 

“Ho avuto la fortuna di non avere due genitori invadenti. Oggi il rapporto è molto più intenso per gli attuali giovani in erba, che stanno sviluppando il loro talento in giovane età. I miei volevano che continuassi a studiare e andare bene all'Università. Non volevano che puntassi solo su una cosa perché erano convinti che la carriera di un'atleta sarebbe stata a rischio a causa degli infortuni”.
 

“Oggi ho sei figli: cinque sono miei, di uno sono patrigno. Volevo che loro sapessero di essere amati. Volevo che sapessero che, qualunque cosa fosse accaduta nella loro vita, avrebbero trovato un rifugio sicuro a casa.”