LA STORIA – Dallo sbarco in Normandia al confidente immaginario: l’incredibile storia di Arthur D. Larsen: più metodico di Nadal, più donnaiolo di Safin e più rissoso di Koellerer.
Secondo la leggenda, Arthur Larsen fu recuperato all'interno di un tank destroyer come questo
Di Riccardo Bisti – 6 febbraio 2014
Il 6 giugno 1944, le truppe alleate effettuarono lo sbarco in Normandia. Il D-Day, come è ricordato ancora oggi, fu il giorno che cambiò le sorti della seconda guerra mondiale. Un paio di mesi dopo, all’esercito americano fu aggregato un ragazzo di 19 anni. Si chiamava Arthur David Larsen, era nato ad Hayward, nei pressi di San Francisco, il 17 aprile 1925. La guerra era quasi finita, ma i tedeschi erano duri a morire. Le folli direttive di Adolf Hitler imponevano alla Wermacht di non arrendersi. E così ci fu l'Offensiva delle Ardenne, sanguinoso contrattacco tedesco tra i boschi e le montagne del Belgio. L’unità di cui faceva parte Larsen fu vittima di un’imboscata. Fu una carneficina. A quel punto subentra la leggenda. Qualcuno ha narrato che quattro giorni dopo, quando arrivarono i soccorsi americani, trovarono un solo sopravvissuto. Si trovava all’interno di un carro armato, un tank destroyer. Lo sportello era bloccato e si poteva aprire soltanto dall’esterno. C’erano cinque persone: quattro morti e un ragazzo prossimo alla disidratazione, affamato e catatonico. Non si ricordava nemmeno il suo nome. Ma la targhetta parlava per lui: Arthur David Larsen. Lo salvarono per un pelo e dopo due mesi di ospedale tornò in California, dove ricevette una tripla decorazione come eroe di guerra. Avrebbe potuto raccontarlo ai quattro venti, ma non lo ha mai fatto. La gente sapeva che era un reduce, ma non conosceva i dettagli. Il fisico si era ripreso, ma le ferite psicologiche non andarono mai via. La sua testa non era più la stessa. E così, un dottore gli disse che il tennis avrebbe potuto fargli bene. In fondo, ci aveva già giocato. Aveva iniziato a 11 anni, a 14 si era aggiudicato il primo torneo. Ma per tre anni non toccò una racchetta. La racchetta sembrava l’unico strumento per tenere a bada le cicatrici mentali di chi era rimasto per giorni con quattro cadaveri accanto. Riprese a giocare sui campi in cemento dell’Università di San Francisco, e mostrò subito un grande talento. Fu uno dei giocatori più forti dei primi anni 50. Nel 1950 Vinse addirittura i Campionati degli Stati Uniti (gli antenati dello Us Open). Insomma, è uno “Slammer” anche lui. Quattro anni dopo, colse la finale al Roland Garros, ma Tony Trabert era troppo bravo per lui.
I giornalisti dell’epoca lo descrivevano come un giocatore senza grande potenza ma pieno di classe. Metteva la palla dove voleva, si aggiudicava un mucchio di punti con morbide palle corte. Tuttavia, la sua notorietà ha scalato le montagne del tempo per il suo strano comportamento. Era mancino. Una sorta di precursore di Jimmy Connors e John McEnroe. Aveva più tic di Nadal, era più pazzo di Safin, più rissoso di Koellerer. Un personaggio a tutto tondo. Avesse giocato oggi, sarebbe stato un idolo per alcuni e un rifiuto umano per altri. “Tutti i miei amici sono stati uccisi in Europa. Certe cose non si dimenticano. E così sono passato dalla paura di morire alla paura di perdere” disse una volta, per spiegare il suo comportamento. Lo avevano soprannominato “Tappy” perchè toccava tutto. La rete, la sedia dell’arbitro, la linea di fondo, persino gli avversari. Era totalmente schiavo delle sue superstizioni. Ogni giorno, stabiliva un numero fortunato. Da allora, compiva qualsiasi gesto quel determinato numero di volte. Non si allenava quasi mai, fumava parecchio e una volta qualcuno descrisse così la sua dieta pre-match: sei-otto birre, due o tre hot dog e il dolce della casa. In campo era insopportabile, una specie di Koellerer ante-litteram. Protestava, tirava pallate al pubblico, se la prendeva con i raccattapalle, a volte usciva dal campo con gli arbitri che lo supplicavano di tornare. Odiava a morte il pubblico. Una volta, in Australia, disse: “Almeno la metà degli spettatori non sa nulla di tennis. Inoltre puzzano. Scrivetelo pure”. Una volta, il suo show arrivò in Italia. Durante un torneo a Genova, colpì un raccattapalle con una pallina. Il gesto gli costò una sospensione. Tuttavia, gli italiani presero le sue difese e ottenero che la sospensione fosse bloccata. Pazzesco. Una volta, il team americano di Coppa Davis giocava a Louisville e lui non fu convocato. Un signore del posto disse: “Se ci fosse stato Larsen, avremmo impedito ai nostri ragazzi di fare da raccattapalle. Non avrebbe fatto altro che insultarli”.
I suoi comportamenti erano tollerati perchè molti conoscevano il suo passato. E se qualcuno provava a lamentarsi, interveniva un suo amico. Con l’aria furente, diceva: “Dove c…. eri il giorno del D-Day?”. E allora scattavano tutti sull’attenti. Larsen è passato alla storia per un paio di aneddoti. Nel 1955 si è aggiudicato il torneo di Barcellona. In semifinale, rimase in campo per sei ore contro Mervyn Rose (battuto 3-6 6-4 12-10 2-6 8-6). Ma quella notte – raccontano – non andò a riposare. Nessuno lo vide nel suo hotel. Andò a divertirsi nella Barcellona by night, un po’ di discoteca e poi direttamente al club. In finale, impiegò cinque ore per battere Budge Pattyy con il punteggio di 7-5 3-6 7-5 2-6 6-4. Il tutto senza dormire. Magari non è vero, chissà, ma perchè rovinare una bella storia con la verità? E’ certamente realtà quanto successo a Wimbledon 1949. Stava affrontando Frank Sedgman (n. 1 del mondo) nei quarti di finale. Avanti due set a uno, vide un piccolo passero accomodarsi in prima fila. Iniziò a fissarlo. L’arbitro gli chiedeva di riprendere il gioco, ma Larsen lo ignorò. Prese a urlare contro il passerotto, tirandogli una pallata e addirittura lanciandogli la racchetta quando aveva già ripreso a volare. Dopo la partita, disse che quel passero voleva attaccare la sua aquila. “L’ho soltanto difesa”. Già, perchè Larsen era convinto di avere sempre un uccello invisibile in spalla. Un confidente immaginario, con cui metteva in scena conversazioni surreali che divertivano il pubblico. La sua carriera è terminata bruscamente nel 1956, quando fu vittima di un incidente in scooter. Perse la vista a un occhio e l’udito a un orecchio. Un paio di mesi dopo, alcuni colleghi organizzarono un evento benefico per dargli una mano nelle spese mediche. Ma la sua carriera era ormai terminata, sebbene anni dopo abbia provato a fare il maestro. E’ morto nella sua California nel dicembre 2012, a 87 anni di età. Gli hanno concesso la sepoltura militare, con tutti gli onori del caso. Lassù, magari, avrà ritrovato il suo fido uccello, il confidente di tante battaglie. E magari gli avrà detto, con fare burbero. “Ma dove c…. eri il giorno del D-Day?”.
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