“Non piango di gioia, ma dentro di me sono molto felice”. Karen Khachanov ha accolto con una certa freddezza il successo a Parigi Bercy, senza frasi a effetto né esultanze sfrenate. È il risultato di un'educazione rigorosa e un percorso ordinato che quest'anno ha trovato il setup ideale: base spagnola, coach croato.

Si è forgiato sulla terra battuta, ma i risultati parlano chiaro: in questo fantastico 2018, Karen Khachanov ha vinto tre titoli sul cemento indoor. Certe condizioni si sposano alla perfezione con il suo tennis potente, a tratti devastante. Qualche anno fa, Fabio Fognini sosteneva che – se avesse avuto la sua potenza – sarebbe andato a chiudere a rete tutti i punti. Di testa. A parte l'aneddoto, il russo che ama leggere e giocare a scacchi, già marito a 20 anni, ha infilato un exploit dopo l'altro a Parigi Bercy, raccogliendo i cocci di uno sfibrato Novak Djokovic, senza energie dopo le tre ore di battaglia contro Roger Federer. Ma Nole è sempre Nole, e bisogna saperlo battere. Khachanov lo ha fatto con poche incertezze, accogliendo la vittoria con una certa freddezza, dote che gli tornerà utile nel resto della carriera. “Questo successo significa tutto per me – ha detto – è di gran lunga il mio titolo più importante. Chiudere la stagione in questo modo, contro Djokovic, è incredibile. Non ho parole per descrivere come mi sento”. A inizio stagione era numero 48 ATP e non aveva obiettivi ben definiti. Semplicemente, voleva lavorare nel modo corretto e andare il più avanti possibile, imparando a condividere il campo con i più forti. Aveva già dato segni di maturità a Toronto, cogliendo la sua prima semifinale in un Masters 1000, poi ha giocato un match fantastico al terzo turno dello Us Open, mettendo alla frusta Rafael Nadal. La vittoria a Mosca ha simboleggiato la realizzazione di un sogno d'infanzia, mentre adesso è arrivata la consacrazione mainstream. Da domani, colleghi e addetti ai lavori lo guarderanno con occhi diversi.

NON È UN ROZZO PICCHIATORE
“Voglio ringraziare il mio team e la mia famiglia. Purtroppo mia moglie non ha potuto raggiungermi, ma metà della famiglia è presente. Li ringrazio per il duro lavoro effettuato nel corso dell'anno”. Sulla partita, ha ammesso che Djokovic lo ha aiutato con un buon numero di errori gratuiti, ma non ci sta a sottovalutare la sua prestazione. Anzi, si conferisce qualche merito. “Lui ha iniziato con grande intensità, sappiamo come gioca, ti fa muovere da sinistra a destra senza sosta. Però sentivo che il match era nelle mie mani. Game dopo game, ho aumentato il mio livello di gioco, crescendo di intensità, mettendo in piedi in campo e facendolo muovere, evitando che lui lo facesse con me. È così che ho recuperato lo svantaggio iniziale”. Sebbene i suoi colpi non siano da manuale di tecnica, è sbagliato considerarlo un rozzo picchiatore. Il suo tennis si baserà sempre sulla forza bruta, ma Karen sa stare sul campo. Lo ha dimostrato contro Djokovic. “Contro di lui bisogna essere molto attenti a scegliere il momento di attaccare, perché è dotato di passanti formidabili – ha detto – mi ero preparato nel migliore dei modi, cercando di avvicinarmi a rete nel momento giusto. A volte è andata bene, altre meno, ma in generale il mio stile di gioco è aggressivo”. Solitamente i russi esprimono emozioni e sentimenti in un certo modo. Kafelnikov e Safin manifestavano molto, sia pure in modi diversi. Anche il suo amico Andrey Rublev, che per anni si è allenato con lui, è un tipo vivace. Gli assomiglia di più Daniil Medvedev, anche se è stato vittima di scatti d'ira anche piuttosto violenti. Khachanov, invece, sembra quasi impassibile. “Non mi vedete piangere di gioia, ma dentro di me sono molto felice”.

IL SETUP IDEALE
Visto che a breve inizieranno le Next Gen Finals, ha buttato lì una frase più promozionale che altro: “Credo che la nuova generazione sia sempre più in alto e bisogna avere fiducia nei giovani” d'altra parte, dodici mesi fa era a Milano. I suoi risultati possono essere uno stimolo per i ragazz più giovani, anche se non tutti possono vantare la sua carrozzeria, con 87 chili di muscoli spalmati su 198 centimetri. Figlio di un pallavolista armeno, non si è limitato a crescere tennisticamente, ma ha capito sin da bambino l'importanza di educazione e formazione. Come detto, nel suo tempo libero ama giocare a scacchi e leggere romanzi. Nel frattempo, porta avanti gli studi a distanza presso l'Università di Mosca. Tra qualche anno, vorrebbe laurearsi in Educazione Fisica. “Per me gli studi sono sempre stati importanti: finite le scuole superiori, ho sempre cercato di frequentare il più possibile l'università. Adesso effettuo un percorso online”. A proposito di percorsi: quando aveva 15 anni, pensò bene di lasciare la Russia e il suo clima inospitale per cercare fortuna altrove. Si era rifugiato a Spalato, trovando un mentore in Vedran Martic, ex coach di Goran Ivanisevic. I due si erano separati nel 2014, quando Karen si è spostato in Spagna pr fare team con Andrey Rublev sotto la guida di Galo Blanco e Fernando Vicente. La crescita c'è stata, perché gli hanno iniettato il DNA spagnolo, spesso garanzia di risultati. Pure troppo, visto che il suo tennis si era sviluppato in modo un po' troppo difensivo. E allora, a fine 2017, ecco la costruzione del setup ideale: restare a Barcellona, ma di nuovo con Martic. E la scelta ha pagato sotto forma di risultati. Ma il successo a Bercy è soltanto un punto di partenza. Lo sanno tutti, lo sa anche Karen.