Grigor Dimitrov batte Djokovic e diventa un Moschettiere del Re. Il suo talento è finalmente supportato dalla condizione fisica e un coraggio che ha tenuto Djokovic in un angolo per tutto il terzo set.
Gioia e incredulità per Grigor Dimitrov dopo il successo su Novak Djokovic
Di Riccardo Bisti – 8 maggio 2013
“Ti dici: stai tranquillo, gioca. Ma sei in finale di Davis e dall’altra parte c’è Edberg che zoppica”. Questa frase di Cedric Pioline sintetizza una situazione in cui ogni tennista si è trovato, almeno una volta nella vita. Sei sfavorito e il tuo avversario all’improvviso ha un problema, ma ci prova lo stesso. Partite come questa possono essere lo spartiacque di una carriera. Se perdi, non sei ancora pronto. Se vinci (e accade di rado), è giunto il tuo momento. Il 7 maggio 2013 è stato un giorno molto importante nella carriera di Grigor Dimitrov. Il talento bulgaro ha azzeccato la più bella vittoria in carriera, superando Novak Djokovic con il punteggio di 7-6 6-7 6-3 dopo oltre tre ore. Il tennis si presta a metafore suggestive, alcune esagerate. Ma stavolta ci stanno tutte: due gladiatori nell’Arena, nella patria delle Plazas de Toros, hanno lottato fino all’ultima palla. Il pubblico voleva il sangue ed è stato accontentato. Alla fine ha vinto il “buono”, il preferito della gente. Un po’ tennis, un po’ sceneggiata, un po’ wrestling: la vittoria di Dimitrov è stata tutto questo. Campo centrale, luci artificali, aria di grande evento, niente Champions League a distrarre gli sportivi. Vince Dimitrov, Viva Dimitrov. Ma “viva” per davvero, perchè non è stata una vittoria banale. Intendiamoci: battere il numero 1 del mondo è sempre un’impresa. Del Potro a Indian Wells e Haas a Miami lo avevano preceduto. Ma è gente temprata, con anni di successi alle spalle. Grigor ha personalità e coraggio, ma non aveva mai annusato l’aria della vetta. Era il D’Artagnan del tennis. “Ha coraggio ma / non ancora sa / come lotta un Moschettiere del Re”. A Madrid si è consacrato. Da oggi, checchè ne dica il computer, è un top-player. “Il mio obiettivo stagionale è stare bene fisicamente. Se ci riesco, posso stare tranquillamente tra i primi 20” aveva detto qualche settimana fa.
Balle. Dimitrov vale già i primi 10 e si candida, con forza, al ruolo di prima alternativa all’establishment dei Fab Four. Esageriamo? Forse, ma intanto la vittoria arriva nel giorno in cui Milos Raonic cede al fantasma di Verdasco e Bernard Tomic mostra al mondo la sua fragilità caratteriale, forgiata da un papà-orco. Che Dimitrov fosse pronto al grande salto, beh, si era capito da qualche mese: nel 2013 ha compiuto un notevole salto di qualità: finale a Brisbane, semifinale a Rotterdam, belle figure a Indian Wells e Miami e quarti a Monte Carlo. E’ entrato di slancio tra i top 30 dopo che per due anni non aveva toccato i primi 50, in una girandola di coach che non aveva fine. Il primo a seguirlo è stato papà Dimitar, tutt’altro che un orco. Anzi, doveva contenere l’entusiasmo travolgente di Grigor. E’ stato il primo ad intuirne il talento, che poi è finito nelle mani di diversi allenatori. Prima c’è stato Pato Alvarez (“Non ho mai allenato un 17enne così forte”, disse), poi Peter Lundgren. Entrato nell’orbita di Patrick Mouratoglu, era stato affiancato a Paul McNamara e poi direttamente a Mouratoglu. Ma quando il coach francese si è focalizzato su Serena Williams, Grigor ha deciso di cambiare tutto. E’ andato in Svezia, nella nuova accademia gestita da Magnus Norman, Mikael Tillstrom e Nicklas Kulti. I primi due erano in panchina sul campo intitolato a Manolo Santana e si sono presi l’abbraccio, morbido e vigoroso, del loro cavallino. A Stoccolma, Dimitrov ha imparato un pizzico di disciplina. Lui è sempre stato un anarchico. “Faccio quello che mi dicono solo se mi va, altrimenti gioco un po’ di colpi a caso. Magari vengono fuori i colpi migliori” dichiarava meno di un anno fa.
Gli hanno fatto capire che il tennis è anche strategia e fisico, non soltanto talento. Le avvisaglie si erano viste a inizio stagione, poi sono arrivate le battute d’arresto contro Djokovic e Murray, rispettivamente a Indian Wells e Miami. In entrambi i casi aveva dominato il primo set (ma lo ha perso), salvo poi crollare nel secondo. Aveva alimentato qualche dubbio sulla tenuta fisica, tanto che Ivan Lendl disse che non era ancora in grado di tenere i ritmi di un Djokovic. “Essere pronti a stare in campo per 5 ore dà grande fiducia – disse il coach di Murray – Dimitrov non è ancora pronto. Se lo fosse, sarebbe già il numero 1 del mondo”. Lo deve aver preso in parola, se per tre ore ha ribattuto colpo su colpo al numero 1 ATP e gli ha sparato addosso 36 colpi vincenti, ma soprattutto ha tenuto duro quando gli sono venuti crampi sul 5-5 nel secondo set, con Djokovic che provava a finirlo giocando palle corte in successione. Stavolta Dimitrov è cresciuto davvero. Ha vinto il primo set di forza: sul 5-5 ha strappato il servizio a Nole, ma si è fatto riprendere. Sotto 4-6 nel tie-break, si è aggiudicato quattro punti di fila. Nel secondo è stato il primo a scappare via, ma sul 4-2 (e 15-40, servizio Dimitrov) il serbo ha preso un’altra storta alla caviglia, la stessa dove si era fatto male in Coppa Davis. Ha interrotto il gioco per otto minuti, riprendendo a giocare salvo attirarsi i fischi del pubblico, ancora più intensi dopo i crampi che hanno colpito Dimitrov. Si andava ugualmente al tie-break, il bulgaro si procurava un matchpoint ma Nole lo annullava con un intelligente serve and volley. Un dritto in rete di Dimitrov spediva il match al terzo e scatenava la rabbia di Djokovic, che diceva di tutto al pubblico al cambio di campo.
Inerzia rovesciata? In altri tempi certamente, non stavolta. Dimitrov reagiva da campione, strappando il servizio a Djokovic nel primo game e annullando tre palle break nel successivo. Ti aspetteresti un set pieno di ribaltamenti di fronte. Invece il bulgaro teneva duro fino all’ultima palla e alle 23.16 poteva alzare le braccia al cielo. E’ nata una stella. Madrid non è uno Slam, ma battere il numero 1 in questo modo è un segnale importante, decisivo. Tra qualche anno, potremmo ricordare Djokovic-Dimitrov come Sampras-Federer a Wimbledon 2001. Non sarà un passaggio di consegne, ma è la consacrazione di un campione che porterà avanti l’idea di un tennis classico, basato ancora sul talento e non sullo strapotere fisico. In barba ai racchettoni che rendono tutto più facile e fanno sembrare un artista anche il più dannato dei fabbri. Dimitrov è un pittore del tennis ed è il nuovo ponte che collega passato e futuro. Il 7 maggio 2013 non sarà una data importante soltanto per lui: la è anche per il tennis.
Ps. Apprezzate lo sforzo: abbiamo scritto un intero articolo su Grigor Dimitrov senza citare Roger Federer. Dovremo abituarci.
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