Dodici mesi fa, l'aria dello Us Open aveva fatto capire a Julia Glushko che non era ancora il momento di lasciare il tennis. Oggi torna nel main draw di uno Slam e passa il primo turno, peraltro dopo aver rischiato di rompersi la caviglia. Il merito è di un team tutto nuovo e del ritorno in Israele, il suo amato paese.

I contorni della favola si erano già delineati quando aveva superato le qualificazioni. Vincere una partita nel main draw dello Us Open, peraltro in rimonta, rappresenta un gioiello nella carriera di Julia Glushko. Sul Campo numero 6 di Flushing Meadows, l'israeliana nata in Ucraina (si è trasferita nel paese quando aveva 9 anni con i genitori, entrambi insegnanti di tennis. Prima a Gerusalemme, poi a Ramat Hasharon) ha superato Monica Niculescu col punteggio di 3-6 7-5 6-4. Risultato ancora più saporito perché un anno fa era prossima al ritiro, ad appena 27 anni. Un ritiro che avrebbe fatto rumore, almeno nel suo Paese, perché aveva già appeso la racchetta al chiodo Shahar Peer, ex numero 11 WTA, ben nota anche per i problemi legati al suo passaporto. Molti ricorderanno le proteste dei filopalestinesi ovunque giocasse, fino al caso-scandalo di Dubai, che non le diede il visto per entrare nel paese. Su forti pressioni della WTA, lo ottenne nei due anni successivi e si spinse addirittura in semifinale. Si fosse ritirata anche la Glushko, sarebbero rimasti senza giocatrici (ci sono solo dieci israeliane in tutta la classifica WTA, nessuna di livello). A inizio anno aveva un obiettivo ben chiaro: rimettere in sesto la sua classifica per giocare le qualificazioni dello Us Open. Essendo l'unico Slam che accoglie 128 giocatrici nel tabellone principale, il cut-off era fissato intorno al numero 225. Lei ha fatto meglio, accomodandosi in 162esima posizione, comunque ben distante da un best ranking al numero 79, datato 2014. Lo scorso anno era numero 229 WTA e decise di andare ugualmente a New York, anche se era fuori di un paio di posizioni dal cut-off. Talmente vicina da non resistere alla tentazione del viaggio intercontinentale, ma se anche avesse giocato non sarebbe stata pronta. Reduce da una lunga crisi di risultati, aveva sostituito la racchetta da tennis con una tavola da surf e aveva quasi smesso di allenarsi. Di più: stava sondando alcune opzioni di carriera fuori dal tennis. “Per la prima volta in vita mia, non volevo giocare a tennis – racconta – e nemmeno mi mancava”.

L'IMPORTANZA DI UN TEAM
Quando mise piede a New York per la scorsa edizione, voleva ascoltare le sue sensazioni. Se respirare l'ambiente del grande tennis non le avesse fatto venire voglia di giocare, allora avrebbe dovuto smettere. Di fatto, quella a New York era stata una vacanza. Però le è servita per capire che non era ancora il caso di lasciar perdere. Allora ha rimesso piede nel circuito ITF e ha chiuso l'anno al numero 288. Ancora più importante, con rinnovate motivazioni. Era talmente carica da convincere la quasi coetanea Keren Shlomo a farle da allenatrice. Ex numero 359 WTA, la Shlomo ha suggerito di aggiungere al team una figura ancora più esperta come quella di Amir Hadad, ex ottimo giocatore israeliano. Proposta accettata, così come non è stato difficile convincere la Glushko a investire su un preparatore atletico (Oren Bar Nur). Le spese sono aumentate, ma sono arrivati anche i risultati. In campo ha ripreso a correre alla grande e a spingere con il suo colpo migliore, il rovescio. Ma, soprattutto, ha pensieri positivi. “A differenza di quelli che avevo avuto in passato: ero sempre negativa, qualsiasi cosa ottenessi, non ero mai soddisfatta. Per esempio, quando ero entrata per la prima volta tra le top-100 non ero così felice”. Nelle qualificazioni, i giocatori e le giocatrici possono parlare con i loro allenatori. E allora, durante i tre turni preliminari, anziché sedersi sotto l'ombrello ai cambi di campo, andava dalla Shlomo a chiacchierare, o meglio, a farsi calmare. Nel primo turno, contro la messicana Renata Zarazua, si è rivolta verso il suo clan e ha detto che non era in grado di respirare. In effetti, il clima di New York, in questi giorni, è quasi proibitivo. Ma c'era qualcosa di più, era una questione mentale. Perso un pazzo primo set (0-4, 4-4 e palla break a favore, 4-6), si è scatenata e ha rimesso in piedi il match con un parziale di 17 punti a 2. L'incitamento della Shlomo, peraltro in lingua ebraica, è servito a tenerla concentrata.

ORGOGLIO ISRAELIANO
“Non ero in grado di respirare perché tenevo da matti a vincere – ha raccontato la Glushko al NY Times – però Keren mi conosce bene. Capita spesso che un allenatore dica la cosa giusta, ma che lo faccia al momento sbagliato. Keren, invece, sa come prendermi”. Lo ha dimostrato: a inizio anno, Julia aveva raccolto una vittoria nelle prime sei partite, poi ne ha raccolte 47 delle successive 56, vincendo tre tornei ITF, compreso l'ultimo a Granby, in Canada. Nulla, a confronto dei 93.000 dollari che si è già assicurata a New York, in vista di un match affascinante con Naomi Osaka. Contro la Niculescu, ha anche rischiato grosso: sul punteggio di 4-0 nel secondo set (dopo aver perso il primo) è rovinosamente inciampata su una palla corta della rumena e ha rischiato di farsi male alla caviglia. Il match è stato sospeso per una decina di minuti, tempo necessario per l'arrivo del trainer e per la fasciatura. Ha rischiato di farsi riprendere, ma ha ugualmente portato a casa il set, e poi il match. “I miei risultati sono dovuti al fatto che sono tornata ad allenarmi in Israele – racconta – anche quando ero entrata tra le top-100 per la prima volta mi allenavo vicino a casa. Ho frequentato molti posti, ma non c'è nulla come casa mia". Anche se le origini sono ucraine, lei adora giocare per i colori della Stella di David: “Non so nemmeno descrivere la sensazione. Rappresentare Israele è qualcosa di speciale. Quando vedo che il duro lavoro paga, mi sento una privilegiata perché non abbiamo tanti atleti che giocano a livello mondiale. Quando mi trovo in giro per il mondo e mi chiedono da dove vengo, rispondo Israele con orgoglio. Non ho l'aspetto da israeliana e neanche l'accento, quindi le persone rimangono stupite ed è fantastico. Adoro stare nel mio Paese”. Anche a New York, tuttavia, non è male.