Il 6 giugno 1999 Andrei Medvedev sfiorava il titolo al Roland Garros. Ce l’avesse fatta, magari tanti giovani lo avrebbero imitato. Si era messo contro l’establishment e ne ha dette di tutti i colori contro colleghi, ATP, organizzatori e giornalisti. Ma quel giorno doveva vincere Agassi…

Il 6 giugno 1999, esattamente 17 anni fa, Andre Agassi conquistava il Roland Garros e completava il Career Grand Slam. Non ci credeva più, specie dopo le due finali buttate via nel 1990 (perse da Andres Gomez e dalla preoccupazione che gli cascasse il parrucchino) e nel 1991 (la pioggia diede una mano a Jim Courier, che cambiò tattica a match in corso). Il giorno prima, Steffi Graf aveva intascato il suo ultimo Slam battendo una baby Martina Hingis in lacrime. Da lì a poco, la loro love story sarebbe stata resa pubblica. Tutto bello, bellissimo, perfetto. Ma la vittoria di Agassi non è stata un bene per il tennis. Non per Andre, ci mancherebbe, ma perché se avesse vinto Andrei Medvedev oggi avremmo un tennis migliore. Pochi lo ricordano, ma l’ucraino è stato il giocatore con più personalità negli ultimi 25-30 anni. Sincero, spontaneo, non le mandava a dire. Con i giornalisti non era passivo, anzi, li sfidava. Come quella volta, durante le ATP Finals a Francoforte, quando invertì i ruoli con Gianni Clerici e gli chiese se avrebbe preferito i soldi o il sesso. E’ arrivato a tanto così dalla gloria eterna, il buon Andrei (Andriy, per dirla in ucraino). Avesse vinto uno Slam, lo ricorderebbero tutti. Come Thomas Johansson, come Albert Costa, Pat Cash e lo stesso Andres Gomez. Invece bisogna scavare per rimembrare un personaggio che avrebbe potuto cambiare questo mondo. Avesse vinto uno Slam, si sarebbe scatenato un ovvio spirito di emulazione. Invece il tennis si è sempre più standardizzato su linee comportamentali da sbadiglio. Nel 1999, sceso al numero 100 ATP dopo essere stato numero 4 a 19 anni, Medvedev ha infilato il torneo della vita. Batté i più forti dell’epoca, Sampras e Kuerten, e dominò i primi due set contro Agassi. Sul 4-4 nel terzo ebbe una palla break per andare a servire per il match. Fallita quella, fallito tutto. 1-6 2-6 6-4 6-3 6-4 e la mitologia ricorda solo Agassi, come se l’avversario in finale fosse stato un fastidioso contorno.


“I giornalisti ti chiedono come hai giocato o cosa pensi del tuo avversario – diceva Medvedev – ma chissenefrega! I giornalisti dovrebbero fare le domande in modo diverso. Da parte loro, i tennisti hanno paura. Hanno il complesso dell’ATP, hanno paura che ogni frase fuori posto possa creare dei problemi. Ci sono soltanto 2-3 giornalisti che fanno domande interessanti, per il resto si va col pilota automatico. Per dare la risposta giusta a una cattiva domanda ci vuole intelletto e carisma, ma non tutti hanno quel talento”. Andriy, nato a Kiev nel 1974, ce l’aveva. Anche a costo di mettersi contro l’intero establishment, anche quando era uno sbarbatello. Nel 1993, appena 19enne, raggiunse i quarti di finale allo Us Open. Si presentò in conferenza stampa e ne disse di tutti i colori. Gli spogliatoi facevano schifo, il cibo faceva schifo (“Non si possono cuocere 500 chili di pasta tutti insieme!”) e nulla era all’altezza di uno Slam. “Credo di essere stato il tennista più virtuoso della mia epoca – ha detto dopo il ritiro, avvenuto nel 2001 – perché sono onesto e coraggioso. Gli altri tengono la bocca chiusa perché hanno paura, ma anche se non ho vinto uno Slam credo di aver fatto qualcosa di buono”. Medvedev è convinto che il nuovo Us Open sia stato costruito (anche) per merito suo. “L’hanno fatto grazie alle mie proteste. Ero un top-10, quindi quello che dicevo aveva un certo valore”. Il direttore del torneo lo fermò e gli chiese cosa non andava. Lui lo prese (non per le orecchie, ma ci piace pensarlo) e lo portò negli spogliatoi a fargli annusare l’odore dei servizi igienici. C’erano cinque bagni, com’era possibile che fossero utilizzati da 300 giocatori tra singolaristi, doppisti e junior? “Mi disse che avrebbero dovuto fare qualcosa, ma pensai che stesse scherzando. Ma 4 anni dopo hanno inaugurato l’Arthur Ashe Stadium! Fui pesantemente criticato da Martina Navratilova. Si domandava chi fosse quell’impertinente che osava lamentarsi Quando ho perso erano tutti contenti. Erano contenti che mi levassi di torno”. Medvedev ha spesso attaccato l’ATP, che a suo dire si comportava come un’azienda di marketing senza curare gli interessi dei giocatori. “Una volta all’Estoril dovevo giocare una semifinale alle 14.30 dopo il match femminile delle 12. Piovve fino alle 14.45, vennero negli spogliatoi e mi dissero: ‘Tra 10 minuti vai in campo’. ‘Ma come, prima ci sono le donne!’. ‘No, c’è la TV, scendete in campo voi’. A loro interessa fare contente le TV e i tornei”. Per un po’ di tempo è stato anche rappresentante dei giocatori nel Player Council, ma non ha trovato grande riscontro nei colleghi. “Prendi Sampras. Lui guadagna tramite l’ATP, è ovvio che dica che va tutto bene. Ma se poni certe problematiche, dice che non gli interessa. Sono pochi quelli che si battono veramente: tra loro ci sono Rafter e Agassi, anche se non vuole darlo a vedere”.



Non è mai riuscito ad avercela, con Agassi, per avergli scippato il sogno di vincere uno Slam. In fondo, se quel 6 giugno 1999 era sullo Chatrier lo doveva anche ad Andre. Due mesi prima, a Monte Carlo, aveva comunicato al suo staff l’intenzione di ritirarsi. Non si divertiva più ad allenarsi, a giocare, non aveva più motivazioni. Lo aveva detto al fisioterapista e al coach Oleksandr Dolgopolov, il cui figlio zampettava durante i suoi allenamenti e sarebbe poi diventato un top-15. Una sera ha incontrato Agassi al Jimmys, e hanno parlato a lungo. “Gli ho chiesto come aveva fatto a risalire quando era sceso al numero 140 ATP. E’ stata una chiacchierata lunga, franca, mi ha dato consigli sinceri e preziosi”. Nel frattempo aveva riconquistato l’amore di Anke Huber, migliore giocatrice tedesca alle spalle di Steffi Graf. Lo disse candidamente: l’avventura parigina fu frutto di una ritrovata serenità fuori dal campo. “Insieme abbiamo passato 7 anni bellissimi, le auguro il meglio, ma si è allontanata perché non ci capivamo. Lei non capiva il modo di fare di noi russi, io fatico a capire quello degli occidentali”. Sì, ha detto proprio “russo”, pur essendo nato a Kiev e avendo rappresentato (e bene) l’Ucraina in Coppa Davis, con 20 vittorie su 23 singolari. Nel 1996 disse che avrebbe chiesto il permesso di poter giocare in Davis con la Russia, piuttosto che per l’Ucraina. “Sarei orgoglioso se si riunissero di nuovo. Sarei pronto a morire per il paese”. Non era d’accordo con la separazione, Andrei: da ragazzino, nelle scuole di Kiev, gli avevano detto che la capitale era Mosca. Ha continuato a pensarla così. “Il paese dove sono nato non esiste più: io non ho cambiato cittadinanza, sono stati gli altri a cambiarla a me. Qualcuno pensa che sia meglio così, ma per me è un ragionamento-spazzatura. Come fai a preferire la separazione solo perché così sei il numero 1 ucraino mentre il Russia saresti il numero 3?”. Era convinto, Medvedev, che il tennis russo avrebbe potuto dominare il tennis. Ci è riuscito tra le donne, ci è quasi riuscito tra gli uomini. “Kafelnikov e Safin? Da noi c’è un detto: se giochi bene per un anno, poi devi passare il successivo a festeggiare”. Non odiava le donne, ma odiava le loro pretese di guadagnare le stesse cifre degli uomini. Chissà come avrà preso la raggiunta parità negli Slam, lui che parlava del torneo di Amburgo e diceva: “Il torneo regalava cinque biglietti al giorno a tutti gli abitanti del posto, fino ai quarti. Ma solo per il torneo femminile”. Un personaggio vero, forse troppo complesso per un mondo ovattato come quello del tennis. Sulla terra battuta aveva tutto per diventare un numero 1. Ha vinto per tre volte ad Amburgo, una volta a Monte Carlo giocando al gatto col topo contro Sergi Bruguera. Ma nei match davvero importanti gli è sempre girata male, come la semifinale parigina del 1993 o il quarto di finale del 1994. Più in generale, per sei volte ha perso contro il futuro vincitore del torneo. “Non sono stato costante perché non avevo motivazioni a sufficienza. Ok, ho avuto problemi fisici e qualche operazione, ma non cerco scuse: non ho dominato il tennis come aveva ipotizzato Ion Tiriac solo perché non ero abbastanza motivato”. In una delle sue conferenze stampa-cult, tuttavia, aveva detto di non avere rimpianti per la sua condotta da tennista “Il mio unico rimpianto riguarda una faccenda extra-tennis che non ho saputo gestire, ma quella me la vorrei tenere per me”. Chissà se si riferiva ad Anke Huber. Non ce ne vogliano i tifosi di Andre Agassi, ma il 6 giugno 1999 non è stata una data felice per il tennis. Avrebbe dovuto vincere Andrei Medvedev. Forse, chissà, gli anni 2000 sarebbero stati un po’ più divertenti. E i calzoncini indossati da Wawrinka nella finale del 2015 non avrebbero fatto così notizia. Già, guardate quelli che indossava Andrei quel 6 giugno 1999….