Oltre ai meriti del ragazzo, la crescita di Matteo Berrettini ha un grande artefice: coach Vincenzo Santopadre. Ha preso un ragazzo poco considerato e con grande attenzione l'ha reso la più grande speranza del nostro tennis. Invece di badare ai risultati ha costruito un progetto a lungo termine, che sta pagando anche oltre le aspettative.(*) A quarant’anni si divertiva ancora a strapazzare gente con ranking ATP, fra tornei Open e Serie A1. Poi, Vincenzo Santopadre ha deciso di dire basta e oggi, accanto al suo nome, l’etichetta disgrazia (per chi lo doveva incontrare) è stata sostituita con risorsa, quella che è diventato per il suo cavallo di razza, Matteo Berrettini. Un ragazzo qualsiasi a 15 anni, quando ha messo piede per la prima volta al Circolo Canottieri Aniene, diventato speciale a 21, lo scorso 19 marzo, quando è entrato fra i primi 100 della classifica ATP. Era da oltre dieci anni che l’Italia non aveva un top 100 così giovane, e Berrettini è il primo a essere cosciente che una bella fetta del merito spetta al suo coach. È lui che l’ha plasmato e l’ha reso grande con pazienza e attenzione, impegno e umanità. In una parola: intelligenza. Non solo sportiva.
Per Berrettini hai sempre parlato di un progetto a lungo termine, ma la top 100 è già arrivata.
Sta crescendo in fretta, ha vinto tante partite e continua a migliorare. Non dico che non ci aspettassimo questi risultati, ma vedo ancora tanti margini di crescita. Si sta affacciando solo ora al circuito ATP, un mondo completamente diverso da quello a cui era abituato. La mia idea è che possa salire ancora molto, perché le sensazioni sono positive. Ma di certezze non ce ne sono e non posso sapere come reagirà strada facendo. Sicuramente è molto bravo a cercare di migliorarsi sempre, ma per arrivare a essere un giocatore completo serve ancora un anno e mezzo o due.
Si può dire che avete fatto tutte le scelte giuste?
Non avremo mai la controprova. Magari se avessimo iniziato presto coi Futures, invece di arrivarci dopo aver completato il percorso under 18, oggi Matteo sarebbe ancora più avanti in classifica. Oppure più indietro. Non lo sapremo mai. Ho sempre ragionato molto su tutti i passi compiuti e se mi volto non credo di aver fatto delle cavolate, né a farlo giocare di più a livello under, né a farlo giocare molto sul cemento o a non esagerare negli allenamenti. Sono soddisfatto di come abbiamo gestito tutti questi passaggi insieme e lo sarei anche se oggi Matteo fosse numero 200. Tutte le persone coinvolte in questo progetto sono state brave a capire chi hanno davanti e lui ha avuto la capacità di affidarsi a noi, e fidarsi, senza rinunciare alle sue sensazioni. Non è un semplice esecutore di ordini: è curioso, gli piace sapere, informarsi su ciò che facciamo. È un grande vantaggio.
Quanto è stato importante poter lavorare su un progetto a lungo termine?
Vedo spesso un desiderio esasperato di bruciare le tappe che non mi convince per nulla. Preferisco far giocare un ragazzo due ore in meno, ma a un livello più alto. C’è da rispettare la crescita fisica e mentale e cerco di andarci cauto con i tempi per capire quanta volontà c’è di diventare un giocatore vero, perché si tratta di un percorso lungo e delicato. Se c’è la volontà, questa si trasforma in un punto di forza quando si dovranno affrontare le difficoltà. Se invece le situazioni sono forzate e la volontà non viene in primis dai ragazzi ma da chi gli sta intorno, è tutto più complicato. Può capitare che i giovani si perdano, mettendo in dubbio tutto ciò che fanno.
Perché Berrettini, che non era il più atteso dei nostri giovani, è arrivato nei primi 100 e gli altri ancora no?
Perché ha fatto più punti (ride). Per dare una risposta dovrei conoscere in maniera approfondita le varie situazioni e i percorsi che hanno affrontato gli altri giocatori, stare in campo con loro e vedere come reagiscono alle difficoltà. Per quanto riguarda Matteo, credo sia importante la sua grande determinazione, data dal fatto che ha scelto lui di intraprendere questa strada, in piena autonomia.L’assenza di aspettative nei vostri confronti, almeno nei primi tempi, è stata determinante?
Assolutamente. Il peso delle aspettative può essere uno dei freni più grandi per un ragazzo e bisogna essere bravi a gestirlo e consigliarlo nel momento in cui inizia a sentirsi gli occhi puntati addosso. Aver percorso buona parte della nostra strada a fari spenti ha aiutato Matteo e lui è stato bravo a sposare un’idea di lavoro che prevedeva la voglia di investire su se stessi in un progetto a lungo termine, che non si basasse sui risultati immediati ma sulla voglia di migliorarsi. Se ha una mentalità simile, l’atleta è più propenso ad accettare le sconfitte e farne tesoro. Per assurdo, quando la scorsa estate Matteo ha vinto tantissime partite, da un certo punto di vista è stato un periodo difficile, perché non eravamo abituati a certi risultati. Le aspettative sono cambiate e proseguire sulla strada giusta non è stato facile, ma è stato bravo a gestire quella situazione. Qualsiasi periodo può diventare una fonte di crescita: l’importante è essere sempre pronti ad affrontare e risolvere i problemi che si presentano.
Matteo ti ha sempre attribuito grandi meriti dal punto di vista umano: quanto è importante?
Tantissimo. Un coach passa molto tempo col proprio giocatore, ci pranza e cena insieme, magari ci divide anche la stanza. Se caratterialmente le due persone sono poco compatibili, il rapporto diventa difficile da gestire. Ricordiamoci che per prima cosa siamo uomini, poi professionisti. Se i due uomini non si trovano bene insieme, è difficile che i due professionisti riescano a rendere al massimo. Io ho sempre cercato di far crescere la persona oltre che il giocatore e l’arrivo del mental coach Stefano Massari ci ha dato una bella mano. Nell’ultimo anno stiamo cercando di dare a Matteo sempre più libertà di espressione e responsabilità maggiori, chiedendogli di essere più autonomo. L’idea è di costruire un atleta che possa essere in grado di funzionare da solo.
Un rapporto molto stretto è sempre un bene?
Il ruolo dell’allenatore è molto delicato. In alcune situazioni il coach deve capire che il giocatore ha bisogno di stare da solo e altri in cui bisogna restargli molto vicino. Avendo anche dei figli, mi rendo conto che quello che mi lega a Matteo è un rapporto quasi paterno: lui lo sa e credo gli faccia piacere sapere che chi ha accanto fa tutto per il suo bene. Se c’è qualcosa che non mi piace, non ho alcun problema a dirglielo, perché lo faccio solo per lui. Una situazione che mi dà ulteriori stimoli.
Quanti meriti ti prendi nei risultati raggiunti sin qui?
Ne ho parlato con Massimo Sartori durante il week-end di Coppa Davis a Genova. Mi diceva che vede un ragazzo con le idee chiare, che lavora per il suo futuro e che ha apprezzato il modo di essere e di pensare di Matteo, in campo e fuori. Penso che un bravo allenatore debba saper tracciare la strada, ma se poi il giocatore non è in grado di percorrerla, non si va da nessuna parte. Il percorso si fa insieme: probabilmente fino a ora come team siamo stati abbastanza bravi, ma gran parte dei meriti sono di Matteo.Quanto aiuta essere stato un buon giocatore?
Non è decisivo, ma molto utile. Sia perché chi è stato giocatore può capire più facilmente cosa si vive in certe situazioni, sia perché, magari anche inconsciamente, il giocatore ha una maggior fiducia. In assoluto, chi ha vissuto certe esperienze è sicuramente avvantaggiato, ma può anche capitare che ex giocatori di alto livello abbiano difficoltà a livello di comunicazione con i ragazzi. E di conseguenza fanno più fatica di altri coach che hanno meno esperienza ma delle capacità relazionali superiori.
Fra i tuoi progetti c’era quello di diventare coach?
Non volevo fare l’allenatore a tutti i costi, anche perché con un giocatore si deve creare la giusta alchimia. Ho avuto la fortuna di trovare un ragazzo fantastico e con grandi qualità, e di fatto mi sono ritrovato a essere il suo coach. Sappiamo quanto è complicato formare un atleta e poi continuare a seguirlo. Servono tante energie e una grande organizzazione. Nella crescita di Matteo ha avuto un ruolo importante il Circolo Canottieri Aniene, che continua a darci la possibilità di avere tutto ciò di cui abbiamo bisogno. In qualsiasi situazione.
Eppure si dice che emergere nella realtà dei circoli romani sia molto più difficile.
Abbiamo la fortuna di lavorare in un circolo con una cultura sportiva che è difficile trovare altrove. L’atleta è visto come un bene prezioso, una situazione che cozza con quella che spesso è la realtà dilettantistica dei circoli, nei quali il primo sponsor sono i soci. All’Aniene,la mentalità è completamente diversa e grazie a questo abbiamo avuto la strada spianata.
Il punto cardine della tua filosofia da coach?
Credo sia fondamentale lavorare sul modo di stare in campo dei ragazzi, trasmettergli determinati valori e un modo di pensare positivo, finalizzato a concentrare tutte le energie in un’ottica di crescita. Poi sono molto fissato sugli aspetti specifici del gioco e sulla tecnica. Ma certe cose funzionano solo quando prima è stata costruita una mentalità vincente. Se c’è quella e il giocatore riesce a risolvere tutti i problemi che si presentano durante una carriera, migliorare colpi, schemi e quant’altro è molto più semplice.
(*) Intervista pubblicata sul numero di maggio 2018 della rivista "Il Tennis Italiano"
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