Jean Yves Aubone è uno di quelli che, nei romantici anni cinquanta, si potevano definire “Journeyman” del circuito tennistico. Giovanotti di belle speranze che giravano il globo terraqueo, seguendo il sole e le stagioni, facendosi invitare ai tornei, dividendo letti e speranze in camerate grandi un pugno, nutrendosi di latte e colazioni da imbucati nei grandi hotel della Costa Azzurra. La realtà odierna, per un wannabe del circuito tennistico del terzo millennio è molto più dura ed è raccontata dal nostro in un ottimo blog, che appare sporadicamente sul sito “The Atlantic Tennis”. Jean Yves, il cui padre a sua volta ha giocato vari tornei del Grand Slam, è stato un ottimo giocatore di college, da junior è stato numero 3 degli Under 16 americani e membro del team di Junior Davis Cup. Ottenuta una borsa di studio presso la Florida State University, è stato insignito del titolo di All American, con uno dei migliori record all-time per l’ateneo di Tallahassee, una piccola cittadina universitaria a nord di Miami. Finiti gli studi con un master in finanza, decise, probabilmente saggiamente, di mettersi a lavorare come broker presso la Morgan Stanley cercando di divenire un epigono di Gordon Gekko, tuttavia, dopo qualche anno passato a studiare grafici e chiamare clienti , il richiamo del gioco è stato troppo forte. Ma il passaggio da un confortevole ufficio a Wall Street a un torneo future di Manzanillo, Messico, non è dei più gradevoli.
SALTI MORTALI PER FAR QUADRARE I CONTI
Aubone racconta di tornei futures giocati in sperdute cittadine messicane, di fughe da hotel all inclusive da 30 dollari al giorno, dove l’unica cosa inclusa erano gli insetti che ti divoravano di notte, di autobus presi alle sei del mattino insieme a peones ecuadoriani, loro diretti a campi di cotone, lui alla vana ricerca di un campo da tennis dove allenarsi, della felicità di trovare fontanelle con acqua potabile, della ricerca spasmodica di tariffe aeree più economiche possibili, per risparmiare qualche soldo in più, di prize money ridicoli. Racconta dell’angoscia di essere in campo e dover vincere per andare avanti, di viaggi di 13 ore in economy class, seduto su un seggiolino piccolissimo e senza poter muoversi, di un mese passato in Israele senza vincere nemmeno un set, della frustrazione di scivolare piano piano verso una situazione che non è più di professionismo, ma di mera sopravvivenza, del venire divorato da mix tra aspettative, forse mal riposte, duri e vani allenamenti, di salti mortali per far quadrare i conti.
UN PESANTE PASSIVO
Era romantico sentire il giovane Nick Pietrangeli raccontare di quando si infilava lo smoking ed entrava nei grandi hotel per mangiare a sbafo alle tavole dei mecenati. Cosi non è leggere di Aubone, del dover individuare come unica fonte di cibo passabile un taco truck posto ai margini di una sperduta carretera, con il risultato di ritrovarsi con lo stomaco distrutto e la necessità di vincere una semifinale di doppio da 400 dollari. Aubone posta un interessante tabella nella quale si fa i conti in tasca, dalla quale è facile evincere come le entrate siano cosi misere da essere ben inferiori a quelle del salario minimo di un lavoratore americano di basso reddito. Se poi aggiungiamo le ingenti spese necessarie per viaggiare e giocare per 26 settimane l’anno, arriviamo a una perdita secca annuale superiore ai ventimila dollari. Ognuno poi si arrangia come può: Aubone, racconta, non ha un coach ma si appoggia alle strutture della Ginepri Academy ad Atlanta: intuiamo che lo aiutano senza farlo pagare, se non modesti fees. Riceve qualche racchetta da Babolat (probabilmente frutto di un accordo dai tempi del college) e si è comprato una piccola macchina per incordare le racchette in modo da risparmiare, ed anzi si propone come incordatore ai colleghi in cambio di qualche spicciolo (ai tempi, lo faceva anche Dustin Brown). Una vita lontana anni luce da chi ce l’ha fatta, da ristoranti giocatori, players lounge, stadi sfavillanti, occhio di falco. L’occhio di falco di un challenger in Colombia è vigilare che l’avversario non rubi ogni palla nei pressi della riga e che nessuno porti via la tua sacca se la lasci incustodita, è dormire in aeroporto con il computer stretto al petto per evitare che lo rubino, mendicare con l’addetto al check in un upgrade in premium economy per un volo di 12 ore.
UNO SU MILLE CE LA FA
Niente di eroico, di prosaico, di avvincente, è la solitudine della stanza in un hotel per backpakers in Indonesia, mentre freneticamente si mette il cellulare fuori dalla finestra per intercettare un segnale wifi e chiamare una fidanzata, che probabilmente è stufa marcia dei tuoi sogni. Un sogno condiviso con altri mille peones che si dividono per le centinaia di quali di tornei Futures, che iniziano ogni sabato in ogni parte del mondo. Visto che mediamente ogni anno entrano 4 (quattro) nuovi giocatori, tra i primi cento del mondo, è facile capire come moltissimi non ce la faranno mai. Eppure nei tabelloni dei tornei futures si mischiano costantemente storie di diciottenni arrazzati, di ventiduenni dalle (si spera) grandi potenzialità con quelle di uomini fatti e finiti, a volte con prole al seguito, che girano località improbabili fino a che la finanza e il fisico reggono, alla ricerca di una improbabile gloria, ricchezza, notorietà. Aubone è tra questi e probabilmente non ce la farà. Ha ventisette anni, un acciacco ai tendini che lo portano a cercare la morbida terra rossa piuttosto che il cemento yankee e quattrocento posizioni ancora da scalare per avere una posizione appena decente. Eppure, controllando i risultati dei challenger, con piacere abbiamo notato il suo nome nei quarti del challenger di Granby, Canada. Sono passati tre mesi. Da allora tante qualificazioni, qualche buon match vinto, ma la classifica non si schioda dal numero 569 ATP. In questi giorni si trova a Birmingham, Alabama, e sta giocando bene. E' in semifinale. Mentre Djokovic e Murray si giocheranno il Masters 1000 di Bercy, lui sfiderà Evan King in un derby americano rinviato per pioggia. Non ci aspettiamo di vederlo mai agli US Open, già partecipare alle quali sarebbe un grande successo. Eppure non è più il nome di uno sconosciuto tra la folla, è quello di un nostro lontano amico, forse un visionario, sicuramente un sognatore, colui che ha lasciato un posto sicuro e (ben) remunerato per un futuro incerto e romantico.