US OPEN – Dopo sette sconfitte negli ottavi, Kevin Anderson si prende il primo quarto di finale in uno Slam. Lo fa col botto, piegando Murray dopo oltre 4 ore di battaglia. È il coronamento del percorso di un ragazzo normale, diventato un campione passo dopo passo.Non tutti i record sono positivi. Quello di Kevin Anderson, per esempio, non lo invidiava nessuno: sette ottavi di finale nei tornei del Grande Slam, altrettante sconfitte. Ma il gigante sudafricano non ha mai smesso di crederci. Pezzo dopo pezzo, allenamento dopo allenamento, match dopo match, ha lavorato sempre più duro per agguantare l’obiettivo, e ce l’ha fatta nella maniera più bella. Il 7 settembre sarà una data che non dimenticherà mai, come il lungo applauso del pubblico del Louis Armstrong Stadium dopo la perla più splendente della sua carriera: 7-6 6-3 6-7 7-6 ad Andy Murray, dopo 4 ore e 19 minuti a sparare servizi bomba e diritti a tutto braccio. Ne è venuta fuori una vittoria vera, che non può non piacere a chi ama questo sport. È il lieto fine della favola di chi ci era sempre andato sempre vicino senza mai farcela, ma se lo meritava come pochi altri, per coronare lungo percorso passato ad alzare sempre di più l’asticella del proprio tennis. Dai tempi in cui da piccolissimo trascorreva pure la mattina di Natale nel giardino di casa a colpire una palla dopo l’altra insieme al fratello Greg, di fronte al muro eretto da papà Mike, fino a quando ha abbandonato il college dell’Illinois per provare a diventare un giocatore vero. È entrato fra i top 100 nel 2010, a 24 anni, e da allora è sempre cresciuto, a fari spenti, lontano dalla luce dei riflettori. Prima i top 50, quindi il primo titolo ATP nella sua Johannesburg, e poi via, un passo alla volta: top 30, top 20, e da poco pure top 15. “Mi sento sulla luna per aver vinto il mio terzo titolo, dopo sette finali andate male”, scriveva sette giorni fa nel suo blog sul sito di SuperSport, TV sportiva sudafricana, dopo il successo a Winston Salem. Non ci sarebbe dovuto nemmeno andare, invece ha cambiato idea all’ultimo e si è preso il titolo che gli ha dato lo slancio decisivo. E se era al settimo cielo per aver conquistato un ATP 250, chissà cosa ha provato nella prima serata newyorkese, dopo aver infilato in un colpo solo la miglior vittoria e il miglior risultato in carriera. Quarti di finale agli Us Open, dopo il già citato record negativo. Tre ottavi di finale a Melbourne: nulla da fare. Due di fila a Parigi: idem. Due di fila a Wimbledon: pure, con tanto di dolorosa sconfitta contro Djokovic da due set avanti. Ma la maledizione prima o poi doveva finire, ed è finita con tanta emozione, insieme alla striscia di quindici sconfitte consecutive contro i top ten nei tornei del Grande Slam.
MURRAY VA “ALL IN”, MA NON BASTA
Detta così sembra una tragedia. Invece non è nulla di che, aveva sempre perso contro avversari più forti di lui. Ma a 29 anni si è stancato di accontentarsi. Ha capito che il tanto atteso quarto non sarebbe piovuto dal cielo, così se l’è andato a prendere con le sue mani, tirando fuori il match della vita. Si è giocato sui binari di Murray: più di un’ora a set, ma ha vinto comunque lui, obbligando lo scozzese a salutare di nuovo uno Slam prima dei quarti di finale, come non gli accadeva da esattamente cinque anni. Per fermarlo ci voleva una prova perfetta, e l’ha trovata lui, che è anche uno dei volti del Players Council ATP, ma fino a qualche ora fa faceva meno notizia pure del blog della moglie Kelsey (conosciuta al college). Probabilmente, qualcosa cambierà dopo che il mondo intero l’ha visto bucare il numero tre del mondo con 81 colpi vincenti: in media una ventina a set. Il migliore forse è stato il primo, chiuso da un tie-break magistrale a decidere dodici game di equilibrio, ma la vera vittoria l’ha costruita nel secondo, quando col suo tennis senza fronzoli è addirittura scappato avanti di due break, facendo capire a Murray di non aver la minima intenzione di fermarsi. Si è fatto riprendere fino al 5-3 e ha pure dovuto annullare una palla-break che avrebbe rimesso tutto in discussione, ma ha giocato bene i punti che doveva giocare bene, portando a casa il set. Murray aveva già rimontato da 0-2 al secondo turno contro Adrian Mannarino, ma ha capito subito che stavolta sarebbe stato tutto diverso. Si è spazientito per un toilet break un po’ troppo lungo del sudafricano, discutendo con l’arbitro Jake Garner, ed è finito per trovarsi sotto di un break anche nel terzo, contro un Anderson sempre più vivace. Sapeva di dover aggredire ogni seconda dello scozzese, e l’ha fatto con tutte le sue forze presentandosi a rete un sacco di volte, con una mobilità rarissima in uno che passa i due metri. Ma non c’è da stupirsi: da ragazzo prometteva bene pure sugli 800 metri, correre non è mai stato un problema. La tensione, invece, lo è diventata quando è andato a servire, in quello che pareva il momento propizio per ammazzare il match. Contro un lottatore come Murray la reazione è sempre dietro l’angolo. Spinto dal pubblico, il campione dell'edizione 2012 è andato “all in” buttando in campo tutto ciò che aveva, e dallo 0-1 con break è salito 3-1 e servizio. Ha perso subito il vantaggio, distruggendo pure la sua Head sul Decoturf blu del Louis Armstrong, ma è comunque riuscito ad allungare la pugna al quarto set, vincendo agevolmente il tie-break.
CONTRO WAWRINKA PER SOGNARE ANCORA
A quel punto, gli spettri della sconfitta contro Djokovic a Wimbledon si sono avvicinati alla porta di Anderson, ma il sudafricano non gli ha permesso di bussare. Mentre Murray si lamentava con sé stesso dopo ogni singolo punto perso, lui era troppo concentrato sui propri turni di battuta, per agguantare un nuovo tie-break e andare a prendersi il successo. Ha fallito (male) due palle-break per salire 2-1 e servizio, ma ha tirato dritto sulla sua strada, non dando troppo peso nemmeno a un principio di crampo al polpaccio. E quando il tie-break è arrivato, l’ha giocato come meglio non potesse. La lezione gli è servita: in quello precedente non aveva preso grossi rischi e Murray ne aveva approfittato, nel successivo ha fatto tutto come si deve. Dal servizio vincente per l’1-0 alle due risposte che gli hanno dato il 3-0, e poi niente regali, fino alla risposta del 7-0, con cui ha scaraventato nei piedi di Murray tutti i bocconi amari masticati in carriera, tutti i tentativi andati male, tutta la voglia di prendersi quel benedetto quarto di finale. Fa doppiamente piacere che sia arrivato negli Stati Uniti, la sua seconda casa, che presto – grazie al matrimonio del 2011 – dovrebbe riconoscergli la cittadinanza. Ha scelto di trasferirsi a Delray Beach quando ha abbandonato il Sudafrica, stanco (anche) delle bizze della sua Federazione, che l’hanno portato a dire addio alla Coppa Davis a tempo indeterminato. Per il momento ci ha perso il Sudafrica: concentrandosi solo sul singolare lui è salito sempre più su, e loro potrebbero molto presto trovarsi a dover fare la corte al prossimo top ten. Già, i primi dieci. La classifica in tempo reale dice che con i 360 punti dei quarti il tennista di Johannesburg salirà in undicesima posizione, a ridosso di Gilles Simon. E il suo torneo non è ancora finito. Fra due giorni ci sarà Stanislas Wawrinka, e fra i due è lui quello ad avere meno paura. L’ha affrontato sette volte, e dopo tre sconfitte ha vinto le ultime quattro sfide. Che sia un segnale? In fondo, dopo il match-point vincente ha semplicemente alzato le braccia al cielo, senza nemmeno sorridere. Forse voleva far presente a tutti che il meglio deve ancora venire. Nella sua carriera è sempre stata una costante.
US OPEN MASCHILE – Ottavi di finale
Kevin Anderson (RSA) b. Andy Murray (GBR) 7-6 6-3 6-7 7-6
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