Thomas Tuchel, allenatore del PSG, spiega come gestire un ragazzino di talento: «Bisogna rendere la vita difficile perché superare gli ostacoli è ciò che conta di più, soprattutto per chi è stato particolarmente dotato da Madre Natura»Thomas Tuchel è un ottimo allenatore di calcio, con una mentalità che però in Italia farebbe fatica ad affermarsi. «A nessuno piace una partita senza emozioni. La gente paga il biglietto per vedere gol, occasioni, dribbling e spettacolo». Ci è riuscito col Mainz, poi col Borussia Dortmund, ora ci sta provando col PSG, col notevole contributo di Neymar e Mbappè, il nuovo idolo dello sport francese, un ventenne destinato al Ballon d’Or. Ma ciò che qui interessa conoscere, è il pensiero di Tuchel su una questione importante: la gestione del talento.

«Le persone di talento sono brave a risolvere i problemi – dice Tuchel -. Tuttavia, ciò che vorrei suggerire agli allenatori di un settore giovanile, non solo nel calcio, è che dovrebbero rendere la vita più difficile possibile a questi talenti perché superare gli ostacoli è ciò che conta di più, soprattutto per chi è stato particolarmente dotato da Madre Natura. Nei miei dieci anni come allenatore di giovani promesse, ho sempre voluto che tutto fosse perfetto, ma se tornassi indietro mi basterebbe avere a disposizione metà campo e un televisore. E il campo non dovrebbe nemmeno essere nelle migliori condizioni. Perché i giocatori devono saper affrontare e superare le difficoltà e provare a giocare al meglio delle loro possibilità indipendentemente dalle condizioni. Le accademie tedesche di calcio offrono grandi opportunità ai ragazzi ma porli in questa condizione di assoluto comfort, comporta un rischio notevole, cioè la scarsa abitudine a dover superare gli ostacoli. Chi è capace di lavorare anche quando lo spogliatoio è in condizioni pessime? O quando il campo è in condizioni che non aiutano a esprimere al meglio le proprie qualità tecniche? Dove sono i talenti nascosti dei giocatori oltre a quelli che sono ovvi ed evidenti?»

Inconsapevolmente, ha toccato un tasto dolente anche per il mondo del tennis. Ricordo Toni Nadal raccontare che spesso faceva allenare suo nipote Rafael con palle vecchie e su campi malmessi per abituarlo alle difficoltà, senza concedere scuse. I risultati, non solo dal punto di vista tecnico ma soprattutto della mentalità, sono stati straordinari. Lo stesso Nanni Moretti, nel film Aprile, urla: «Muscoli! Così non ti vengono quelle spallucce vittimiste dei tennisti italiani, che perdono sempre per colpa dell’arbitro, del vento, della sfortuna, del net, sempre per colpa di qualcuno, mai per colpa loro». Non è facile trovare il giusto compromesso tra la necessità di avere delle strutture adeguate per crescere giovani talenti e avviarli al professionismo e, al contempo, insegnare sacrificio, coraggio e soprattutto la capacità di non trovare alibi sulla strada di una possibile sconfitta, di essere capaci di vincere giocando male, perché vincere giocando bene son capaci in tanti. Ricordo che una volta Andrea Gaudenzi mi disse: «I giorni in cui ti svegli e il cielo è azzurro, il sole splende, le gambe girano a mille, non avverti il minimo fastidio e vedi la palla grande come un melone, sono tre all’anno. Il resto delle volte devi arrangiarti con quello che hai a disposizione quel giorno. E perdere con una buona scusa serve davvero a poco».

Eppure non è raro vedere maestri e genitori assistenzialisti, vittime dei risultati giovanili che la storia insegna avere un’importanza piuttosto relativa ma che servono a mantenere alto l’entusiasmo, dei giovani protagonisti e dei loro accompagnatori, non necessariamente in quest’ordine. E così si mette in secondo piano l’aspetto formativo, la disciplina. Per il maestro poi, la problematica è ancor più comprensibile perché, seppur in maniera meno determinante rispetto a quanto accade tra coach e giocatore pro, anche in questo caso dovrebbe intervenire duramente contro chi paga la retta della scuola agonistica, le trasferte e le diarie. E così, il risultato immediato prevale sulla programmazione, anche se raggiunto con metodi che potranno in futuro trasformarsi in limiti. Ma è difficile, soprattutto in una situazione socio-economica complicata come quella attuale, pensare nel lungo periodo. C’è un presente da affrontare e se è necessario rendere la vita più facile ai giovani allievi per non vederli arrendersi davanti alle prime difficoltà (e conservare un buon numero di iscritti alla propria scuola), ben venga. «Al futuro, ci pensi Tuchel» mi ha risposto un maestro mentre gli illustravo il pensiero del mister del PSG. Al contrario, non resta che sperare che nuovi Tuchel crescano alla nostra Scuola Nazionale Maestri. A patto che qualcuno glielo insegni.