di Roberta Lamagni – foto Francesco Panunzio
Dai tessuti la sfida è passata al tennis. Il titolare di Finelvo, Roberto Rossetti, è oggi anche l’appassionato creatore di Doublear – doppia erre, per chi non avesse colto il richiamo -, la sola realtà italiana in grado di produrre corde da tennis.Nella vita ha sempre avuto un’unica missione: tirare le fila. O meglio, i fili. E pare averlo fatto con successo considerato che Finelvo, l’azienda di tessile tecnico di cui è proprietario, è uno dei due produttori al mondo di filo di nylon floccato, utilizzato per i rivestimenti di sedili e pannelli porte di auto di pregio. Da oltre 45 anni, cinquanta dipendenti operano sui macchinari dello stabilimento di Occhieppo Superiore – località adagiata sui fianchi di Biella, nella prestigiosa terra dei filati – prestando servigi alla quasi totalità dell’universo dell’automobile.
La nuova nata condivide con il colosso del nylon floccato sede e macchine, su cui sono stati effettuati i primi, azzardati esperimenti che a distanza di tre anni hanno condotto alla realizzazione di un catalogo ricco e variopinto. I capannoni sono stati adattati all’uso; all’ultimo piano di uno degli edifici è sorto pure un campo da tennis, pronto per testare nuove soluzioni e concedere qualche ora di svago. L’interesse per racchette e palline si è acceso a tal punto che le primissime ore della domenica Rossetti le dedica a quello che è diventato il suo sport preferito.
In un mercato in cui la produzione a livello globale è sempre più un’esclusiva asiatica, l’idea di avere a pochi passi un vero stabilimento made in Italy ci ha incuriosito. Una visita nelle “stanze di lavorazione” e una chiacchierata con il patron Rossetti ci hanno aiutato ad approfondire la vera natura di un progetto nato per gioco ma che, per ammissione dello stesso proprietario, gli è ormai entrato nel cuore.
Dai tessuti alla corda il passaggio non è immediato. Come è stato l’approccio con il tennis?
“E’ la storiella dei matti, se vogliamo chiamarla così, perché un po’ di follia ci vuole. Tutto è partito da mio figlio di 10 anni. Passava l’estate in Liguria con la nonna, tra spiaggia e giardinetti, e io e mia moglie volevamo facesse altro. Così l’ho portato a giocare a tennis. Al circolo di Toirano ho conosciuto il maestro Sandro Esposito, che mi è subito piaciuto, e ho deciso di provarci anch’io. Un giorno, chiacchierando con Sandro mentre incorda una racchetta, gli ho chiesto ‘cos’è quella roba?’. Lui mi ha risposto ‘nylon’, sbagliando. In Finelvo lavoro due tonnellate e mezzo al giorno di nylon e qualcosa ci capisco. Gliene ho chiesto un pezzo e gli ho detto ‘dammi 3 mesi e te lo faccio io’. Non sapevo giocare, non capivo nulla di tennis ma mi ero creato un’idea”.
E’ stato davvero così facile?
“Neanche per sogno! Ho subito pensato alla chimica e volevo fare qualcosa di diverso. La prima corda è stata la Doublear 22, quella rossa rivestita in ceramica. Mi ero focalizzato sulla trasformazione che la corda doveva subire dentro l’impianto. Mi preoccupavo solo di depositare bene il film di ceramica, di non crepare il polimero. Poi l’ho portata a incordare. Con la prima racchetta siamo arrivati a sei nodi, uno spaghetto si fletteva di più (sorride, ndr). Non avevo valutato quel che volevo dare alla corda, era bella esteticamente ma non utilizzabile”.
Qual era l’idea di partenza?
“Il mio filo nasce da un processo particolare. I macchinari che utilizzo sono stati prima costruiti da mio padre e poi li ho disegnati io. Ho passato tante ore su queste macchine, anche come operaio, le conosco alla perfezione. Visto che sul mercato esistono monofilamenti e multifilamenti, io ho pensato ‘perché non inventare qualcosa in mezzo’. Volevo modificare il dna della corda attraverso i processi, questo era il mio intento”.
Su cosa si è concentrato, quindi?
“Sul monofilamento. Pensate a una macchina per fare la pasta, si gira la manovella e dai buchi esce lo spaghetto. La prima variabile della corda è il polimero, l’impasto. Oggi si usa principalmente il poliestere, mentre quasi nessuno utilizza il nylon, perché è più flessibile ma teme molto l’umidità. I poliesteri vengono additivati con altre chimiche, che possono essere compatibili o incompatibili. Mentre quelle compatibili creano con il poliestere un corpo unico, i prodotti incompatibili, come granelli di sabbia, formano un corpo pieno di puntini non fusi che cambia le caratteristiche della corda. Questa è la principale tendenza di oggi”.
Dai primi tentativi a una corda accettabile, quanto tempo è passato?
“Due anni. E nel mentre mi è successo di tutto. Pensavo di aver fatto qualcosa di buono e ho distribuito in giro qualche campione, ma si rompevano in fase di incordatura. Solo l’armeggio si spaccava, non la matassa, ma era un prodotto continuo, realizzato nella stessa giornata di lavorazione. Ci è voluto un po’ a capire quali fossero i problemi”.
Cosa avete scoperto?
“Inizialmente le mie confezioni erano di sola carta. Esistono delle migrazioni chimiche di certi prodotti a contatto con carta, quindi la corda nel packaging si alterava. Così con delle semplici bustine alimentari abbiamo risolto parte dei problemi”.
E il resto?
“Il resto era dato da quello che in gergo definiamo nuvola. All’uscita dall’estrusore il poliestere viene raffreddato con un bagno d’acqua, ma le gocce che si depositano sul filo fanno molto male alla corda, ne cambiano le caratteristiche e causano stupide rotture. E’ fondamentale che il filato estruso perda umidità, e questo avviene passando la corda in un forno prima che venga stirata”.
Oggi esistono oltre 400 variabili di monofilamenti, come è possibile?
“E’ semplice, perché in base al polimero, alla sezione, al calibro, al colore si possono ottenere un’infinità di variabili”.
Parliamo per esempio del calibro…
“Da una stessa filiera produco anche quattro, cinque calibri differenti. Dipende dai rulli di stiro. Il concetto però è che più un filo è stirato, più è rigido, più ha un alto carico di rottura”.
Il colore come incide?
“La chimica di tintura del poliestere è minerale, quindi quando fondo il poliestere con microgranelli, a seconda della percentuale, otterrò delle variazioni. Il nero è in assoluto il meno omogeneo e di conseguenza, la stessa corda in variante nera farà più grip sulla palla”.
Come si fa a capire se la corda è buona? Ci sono dei parametri?
“E’ proprio questo il bello, non esistono. Al di là di misurazioni banali come il carico di rottura, il calibro, la perdita di tensione, non esistono veri e propri standard. Io mi sono inventato una macchina che con un carico di 20 kg misura l’allungamento della corda nel tempo, per esempio, ma questa è una misurazione che faccio io, non ha corrispondenze con quelle di altri marchi. Poi c’è da dire che io ragiono con i parametri del settore auto: per me un filo deve essere sempre solido alla luce, resistente all’abrasione. Quando ho creato Doublear ho voluto rispettare la Iso 9001 che seguo anche per Finelvo. Questo mi obbliga ad avere la tracciabilità totale del prodotto, posso sapere addirittura chi ha impacchettato l’armeggio, perché sono convinto sia utile”.
Quali sono i vostri modelli più riusciti?
“Anche se le più richieste sono le Diablo 24 e 19, io trovo che i modelli Twice Dragon e Twice Viper abbiano una facilità di gioco notevole. Oltre a un’estetica originale, visto che il nostro brevetto Twice Tech consente di applicare al monofilamento due colorazioni diverse in sezione longitudinale, senza condizionare le proprietà della corda. E’ proprio quello di cui parlavo all’inizio, siamo sempre alla ricerca di soluzioni innovative, non possiamo copiare ciò che gli altri producono da anni con più esperienza”.
Dopo tre anni quale bilancio si può tirare?
“In questi anni ho imparato molto dagli errori. Ci sono stati momenti in cui mi sono abbattuto ma la passione mi ha sempre restituito l’entusiasmo. Oggi a catalogo abbiamo più di venti prodotti ma nella mia testa ho già tre progetti rivoluzionari per il 2014. Economicamente il bilancio è in rosso, per questo giocattolo ho investito più di 300.000 euro e i ritorni devo ancora vederli ma c’è un motivo fondamentale per cui proseguo, mi è entrato nel cuore”.
Roberto Rossetti, creatore e titolare di Doublear
Il campo che Rossetti ha fatto costruire all’ultimo piano di uno dei suoi stabilimenti