Anche per i Fab Four, ai nostri occhi dei della racchetta, il momento dei saluti è indecifrabile e doloroso. Lo abbiamo visto con Federer, lo sta sperimentando Murray in questi giorni. Nadal tentenna, Djokovic prosegue la lotta contro il tempo
foto Ray Giubilo
C’è un nemico che non si batte: il momento dell’addio. Abbiamo vissuto vent’anni da favola, spettatori di un tennis al di sopra delle nostre possibilità emotive, ora ci tocca scoprire la fragilità dei nostri idoli. Umani, troppo umani. Persino loro, i Fab Four, classe pura, gente capace di prendere in mano la propria vita e trasformarla in blockbuster. Ma non di disegnarsi la parola fine al momento giusto, voluto, desiderato.
Andy Murray lo sta sperimentando in questi giorni. E’ dal 2017 che perde colpi, che subisce i dardi dell’avversa fortuna ma soprattutto i ferri del chirurgo amico. Fra essere e non essere (un fuoriclasse) ha scelto di sognare un ritorno che si è trasformato in calvario. Due operazioni, un ritiro abortito, un altro più definitivo che ora incombe, il magone che gli salta alla giugulare e strema una nazione sportiva. Una fine diluita, uno stillicidio di forse, chissà, proviamoci, non si sa mai. Wimbledon è pronto a celebrarlo anche solo da doppista, ma non è la stessa cosa, non può esserlo, così anche la cerimonia degli addii rischia di trasformarsi in un avrei voluto ma non ho potuto.
Federer due anni fa ha attraversato lo stesso tunnel. Oggi i suoi ultimi dodici giorni li celebra un documentario accorato ma un filo umidiccio, tutti a piangere il campione che ha mancato l’appuntamento con il finale più bello di sempre, il sipario assoluto, Roger che alza la nona coppa nel tramonto dorato del Centre Court e si avvia verso l’orizzonte infuocato come un cowboy che ha steso anche la malinconia. Persino il genio al posto dell’assunzione in cielo si è dovuto accontentare di un funeral party certo commovente, ma infilato nello scenario di plastica della Laver Cup. A Wimbledon era voluto tornare comunque, dopo la scena madre steccata, testardo, incredulo, irritato, irrisolto, solo per scoprire che ormai un Hurkacz qualunque poteva fargli da buttafuori. Alla 02Arena ha finito preso a pallate in doppio da Sock e Tiafoe, imbucati inconsapevoli in una festa che non era la loro – tu che li inviti perché soffino sulle candeline e loro che si ubriacano e vomitano sul tappeto. ’Fucking Tiafoe’, smozzica Nadal in una delle ultime scene del documentario, maledetto Tiafoe. E che si fottano tutti gli addi.
Quello precoce e pentito di Borg e quello in ritardo di McEnroe, il tour melenso di Edberg e lo sbilanciamento di Becker, il bye bye sabbatico di Sampras e il declino d Agassi. Tutti hanno il diritto sacrosanto di scegliere da quale porta uscire, e a che ora. Ma l’ultimo pezzo di corridoio quasi sempre è più scivoloso dell’erba del Centre Court in una giornata di pioggia.
«Mentre gli uomini fanno piani per il futuro Dio se la ride», dice un proverbio russo citato da Maria Sharapova dopo il suo commiato corretto al meldonio. Ora siamo qui che attendiamo l’inchino di Nadal, che già lo ha mancato al Roland Garros, e quello di Djokovic che sta sfidando anagrafe e regole dell’ortopedia, danzando su un ginocchio solo pur di disegnarsi un finale di partita su misura ma ogni settimana che passa sempre più lontano e problematico.
E’ lì che la vita di tutti noi e quella dei campioni finisce per coincidere. Crediamo tutti di aver un credito infinito con il Tempo. Invece è solo un debito da restituire con una rata difficile da calcolare.