L’incredibile vicenda di Oscar Hernandez, l’ultimo grande pedalatore. Le complicazioni dopo un’intervento alla schiena lo hanno bloccato per tre anni. Oggi, 36 anni, batte Go Soeda allo Us Open.

Di Riccardo Bisti – 20 agosto 2014

 
Si mettevano laggiù, 3-4 metri dietro la linea, e aspettavano l’errore dell’avversario. Le loro armi? Gambe, cuore “e fiato finchè vuoi”. Li chiamavano "contrattaccanti da fondo", il volgo li definitiva "pallettari". Oggi il tennis è cambiato e sono scomparsi, almeno quanto gli attaccanti puri. E’ rimasto solo Oscar Hernandez, l'ultimo baluardo di un tennis che non c'è più. L’uomo che ha vissuto tre volte. La sua vittoria al primo turno delle qualificazioni di Flushing Meadows è l'ultimo atto di una storia meravigliosa. Una storia di sudore, coraggio e tenacia. La sfida di un uomo che ha lottato prima con se stesso, poi con la sfortuna. E a 36 anni di età, dopo una carriera di fatica, si è tolto la soddisfazione più bella. Chissà cos’ha pensato dopo il 6-3 6-3 rifilato a Go Soeda. Forse a quel maledetto 24 novembre 2010, quando si operò di ernia discale. Un intervento di routine per sistemare i dolori alla schiena che lo avevano attanagliato per tutto il 2010. Gli dissero di stare qualche giorno a casa e poi riprendere la vita di tutti i giorni. Ma poi, l’incubo. Una complicazione che colpisce un paziente su mille. Scoprì di non essere in grado di camminare. Aveva le vertigini, si sentiva come ubriaco. “Stai a letto altre tre settimane, può capitare”. Ma la situazione non migliorò. E così scoprirono che il povero Oscar aveva perso liquido spinale: accade per le rotture accidentali intorno al midollo. Altra operazione, lungo riposo e addio tennis. A 33 anni, con la prospettiva di restare fermo a letto per due mesi, non poteva esserci altra soluzione. Ma dentro di sè aveva benzina speciale: la fiducia che, anni prima, gli aveva regalato coach Marcos Roy. Oscar aveva iniziato a giocare a tre anni, quando i campioni spagnoli si chiamavano Manuel Orantes e Josè Higueras. Forse è da loro che ha imparato a lottare laggiù, in braccio ai giudici di linea. Dalla finestra della sua cameretta si vedeva un campo da tennis, si incuriosì e convinse i genitori Domingo e Pilas a farlo provare. Una storia come tante.
 
DAL NIGHT CLUB AL LETTO D'OSPEDALE
“Ma io non sono mai stato un buon giocatore – racconta – ho raccolto il primo punto ATP quando avevo 20-21 anni, età troppo avanzata per chi vuole sfondare”. A 23 anni, il bivio. Con i futures e i challenger finiva in passivo e non voleva farsi mantenere dai genitori. E così decise: addio tennis. Basta vivacchiare, meglio costruirsi una vita normale. Trovò lavoro come cameriere in un night club. Durò tre mesi. Poi ci fu l’incontro con Roy. “Non era giovanissimo, ma aveva le qualità per emergere – racconta il coach – abbiamo deciso di fidarci l’uno dell’altro, pianificando un obiettivo: entrare tra i top-100 in due anni”. Bastarono meno di dodici mesi. Per il grande pubblico, Hernandez era uno dei tanti spagnoli. Per i più attenti, un pallettaro fuori tempo massimo. Per lui, ogni vittoria era un trionfo. Giocare a certi livelli era un sogno. Si è tolto le sue soddisfazioni: numero 48 ATP, dieci titoli challenger, un terzo turno a Roland Garros e un paio di vittorie di prestigio contro Lleyton Hewitt e Robin Soderling. La sua carriera stava dolcemente planando verso la fine, quando i problemi alla schiena lo hanno attanagliato. Si operò a novembre, voleva essere pronto per l’anno nuovo. Invece è iniziato un incubo. Dopo l’eterna riabilitazione, quando si rialzò dal letto ebbe una sensazione orribile. “Ero come un bambino che imparava di nuovo a camminare. Avevo perso tutto il tono muscolare, e non è che prima fossi particolarmente muscoloso”. Con l’aiuto della moglie Raquel e dell’amato cagnolino Buffy, ha deciso di riprovarci. Ma il destino aveva deciso di accanirsi ancora. I medici si accorsero che aveva la spondilostesi, una disfunzione della vertebra nella parte bassa della colonna vertebrale: in due parole, esce dalla sua posizione naturale e crea più di un problema. “Dottore, mi dica, potrò ancora giocare a tennis?”. “Certo. Alla domenica, con i tuoi amici”.
 
IL CHIODO ASPETTA ANCORA
Non era la risposta che voleva. “Non intendevo questo. Volevo sapere se potrò tornare a fare il professionista”. “Forse si. Sarà molto doloroso, ma con una lunga riabilitazione potresti farcela”. L'ha preso in parola e si è affidato nuovamente a Marcos Roy. “Quando ci siamo conosciuti – racconta il coach – Oscar non aveva fiducia. Poi, intorno ai 24 anni, si è reso conto delle sue potenzialità”. L’insicurezza si è trasformata in coraggio, pur senza perdere l’umiltà. Consapevole della sua forza, ha lentamente ripreso a muoversi, poi ad allenarsi e ad assumere le sembianze di un atleta. Quando giocò il suo ultimo torneo, a Napoli 2010, era numero 198 ATP. L’eterno stop, durato quasi tre anni, gli ha permesso di tornare con la classifica protetta, dodici tornei da giocare con il ranking che aveva al momento dell’infortunio. Avrebbe voluto riprendere nel 2013 con le qualificazioni di Roland Garros, ma non potè perchè non aveva avvisato l’antidoping con tre mesi d’anticipo. E’ tornato nel settembre 2013, al challenger di Siviglia. Ha giocato un paio di futures in Cambogia (!), poi la curiosa decisione: sfruttare il ranking protetto solo negli Slam. Una specie di tour d’addio, la soddisfazione di decidere le modalità dell'addio. A Melbourne, Parigi e Londra aveva perso in due set da Riba, Dzumhur e Androic. A New York, il sorteggio era stato cattivo: Go Soeda, numero 109 ATP e seconda testa di serie. Invece lo ha battuto e al secondo turno troverà Guido Andreozzi. Per far prendere ancora un po’ di polvere al chiodo che aspetta la sua racchetta. Non poteva che succedere a New York, città dove ha vissuto la sua più grande emozione tennistica: 1996, quarti di finale. Alex Corretja sfiorò il miracolo contro Pete Sampras, chiudendo in lacrime, con un doppio fallo. Pur perdendo, Alex gli fece capire che c’è spazio anche per i “pallettari”. 18 anni dopo, Oscar lo ha dimostrato ancora una volta. Sperando che non sia l'ultima.