La WTA consente agli allenatori di scendere in campo e dare consigli alle giocatrici. L’esperimento non ha generato alcun interesse e spesso è dannoso. Dovrebbe essere abolito.
Laura Robson a colloquio con coach Zeljko Krajan
Di Gianluca Roveda – 12 aprile 2013
Il tennis è uno dei pochi sport in cui è vietata la comunicazione tra i giocatori e i loro coach. Le eccezioni sono pochissime: le gare a squadre (Coppa Davis e Fed Cup) e i tornei WTA, che dal 2009 consentono alle giocatrici di chiamare il proprio allenatore, a patto che sia dotato di microfono e il dialogo sia ascoltabile in mondovisione. E’ passato un periodo di tempo sufficiente per giudicare il fenomeno: il bilancio è decisamente negativo. Nella maggior parte dei casi, si tratta di una notevole perdita di tempo, spesso controproducente. Il “coaching” sul campo è stato istituito per le TV, a beneficio (?) del pubblico. Dovrebbe aggiungere spettacolo all’evento. Teoria ridicola: ricorda un po’ la decisione della Formula 1, quando decise di reintrodurre il rifornimento alle vetture durante la gara: spettacolo, poco. Rischi tantissimi. Per fortuna, nel tennis non si rischia l’incolumità. Però le giocatrici possono andare in corto circuito mentale. Ma non è questo il punto: il coaching non ha nessun interesse per il pubblico. Detto che i coach parlano nelle lingue più disparate, e quindi non sempre i dialoghi sono comprensibili, è la scena in sé a non avere alcun appeal: il coach arriva, si inginocchia davanti alla tennista e scatta il monologo. La giocatrice non apre bocca, spesso non c’è neanche contatto visivo. Spesso beve acqua o mangia una banana, come se non le importasse nulla.
Ancora peggio se la discussione si fa animata, come quando Roberta Vinci risponde a Francesco Cinà (peraltro uno dei pochi che vale la pena ascoltare, perché ha sempre le idee chiarissime). Ti senti quasi in imbarazzo, come a invadere uno spazio privato dove non avresti diritto a entrare. Si può discutere sul fatto se sia giusto o meno vietare il coaching (nel circuito ATP abbiamo visto richiami e penalità francamente ridicole), ma uno degli aspetti più affascinanti del tennis è la sua capacità di creare atleti indipendenti. Sul campo sei da solo, devi risolvere i problemi con le tue forze. Una partita di tennis mette a nudo la forza interiore dei giocatori: o sei abbastanza bravo da risolvere i problemi, oppure ti fai travolgere. Chris Evert è fermamente contraria al coaching: “Devi fare affidamento su te stesso. Non puoi contare su altre persone, le risposte le devi trovare da solo”. In verità, il coaching non è un obbligo. Serena Williams, per esempio, non ne ha mai usufruito. Secondo Mary Carillo, discreta giocatrice degli anni 70 e oggi ottima commentatrice, il tennis offre alle giovani donne la possibilità di mostrare la loro forza mentale. Come se fosse uno strumento fertile per il femminismo. Non è un caso che le “Sfide dei Sessi” si siano giocate proprio nel tennis. “E allora il coaching non va bene. Gli uomini non ce l’hanno, mentre alle donne è permesso dire ‘Papà, la mia avversaria mi sta togliendo il servizio’”.
Tanti appassionati hanno smesso di tifare per Caroline Wozniacki quando hanno scoperto che i consigli di papà Piotr sono fondamentali. Qualcuno sostiene che non abbia mai vinto uno Slam (anche) perché nei Major si sente persa. Il coaching, infatti, è consentito solo nei tornei WTA. E allora Caroline va in difficoltà, abituata ad essere consigliata dal padre. Per sua stessa ammissione, la mano di Piotr è stata fondamentale per battere Serena Williams a Miami 2012. Ma capita spesso il contrario, ovvero che il coaching si riveli un disastro. A Miami, Sloane Stephens ha chiamato il suo coach (David Nainkin) dopo aver vinto il primo set contro la Radwanska. Da allora non ha più messo una palla in campo. In finale, la Sharapova ha chiamato Thomas Hogstedt sul punteggio di un set pari. Inutile ricordare che ha perso il terzo per 6-0. Di quell’intervento, si ricorda una frase del coach svedese. “Maria, non iniziare a piagnucolare”. Tutti questi fattori, uniti al sostanziale disinteresse del pubblico, dovrebbero far riflettere la WTA. Stacey Allaster è un buon capo, sta facendo cose discrete in tempi di crisi, ma se un esperimento non funziona bisogna avere il coraggio di tornare indietro.
Essere vulnerabili, e ammetterlo, è una grande risorsa
Vulnerabili lo siamo tutti, anche e soprattutto i tennisti, in un’epoca in cui la pressione per il risultato è...