Jean Yves Aubone era una ragazzotto decisamente arrivato che viveva nel lusso tra New York e Miami. Poi, il 28enne americano, ha deciso di dare alla sua vita una svolta imprevedibile … di CORRADO ERBA

di Corrado Erba

 

Jean Yves Aubone sarebbe uno dei mille peones del circuito, ragazzotto americano piuttosto cresciuto (ha quasi 28 anni), un volto in quella folla disperata alla ricerca di punti, visibilità, dollari e jet set. La particolarità del nostro, è che per quel che riguarda i dollari e il jet set era decisamente arrivato.

 

Dopo una carriera universitaria ove aveva ben giocato (All American) e ancora meglio studiato, questo ragazzo originario della Florida, figlio a sua volta di un ex discreto giocatore, aveva trovato un posto molto ben remunerato in una nota banca di affari.

 

Vestiti da 2.000 dollari, cene in ristoranti prestigiosi come “Baltazar” a New York o da “Nobu” a Miami erano all’ordine del giorno, cosi come i bonus miliardari che toccavano a questi rampanti yuppies dell’east coast, impegnati a studiare grafici e consigliare investimenti a facoltosi e abbronzati tycoon.

 

Ma questo non bastava più a Jan Yves. Come racconta su un blog pubblicato da “The Atlantic Tennis”, una sera sedeva in terrazzo nel suo bell’appartamento fronte mare a Miami, leggeva i risultati dei tornei vedendo che ancora una volta uno dei suoi vecchi compagni di college aveva passato un turno in un torneo del Grande Slam, così come molti altri, affrontati e battuti ai tempi belli.

 

Voleva ancora andare il prossimo lunedì in ufficio e sedere davanti a tre schermi Led, mentre nel mondo, altrifacevano o cercavano di fare ciò che più gli piaceva al mondo? La decisione era presa e comunicò al suo boss e ai colleghi che avrebbe lasciato il lavoro per tentare la carriera di tennista professionista, a 24 anni. Nonostante lo scetticismo di qualcuno, venne circondato dall’affetto di quei molti, forse troppi, che avevano rinunciato ai propri sogni. “I lavori in finanza rimangono, le chance di diventare giocatore professionista passano in fretta”, si disse.

 

Ma, passare da uno degli spot più cool di Miami beach all’inferno dei tornei futures, non è cosi facile, se non hai il servizio di Pistol Pete o la risposta di Djokovic. Il nostro, così ha iniziato un lungo, faticoso pellegrinaggio in luoghi che non solo tennisticamente, sono piuttosto inospitali.

 

Racconta in maniera molto esaustiva come gli ostacoli out of court, sono quasi più difficili che on court.

 

Bisogna trovare il volo più economico, il transfer da un incasinatissimo aeroporto a un villaggio posto a 4 ore di carrettera, un letto in un hotel che non sia infestato da cimici, un pasto che non dia la dissenteria.

 

Dopo tutto questo, bisogna anche giocare a tennis. E cercare di vincere; punti e soldi.

 

Basta studiare la tabella da lui messa on line per comprendere come quello che i top manager della finanza chiamano ROI, ovvero il ritorno (positivo) all’investimento, per un giocatore fuori dai top 100, è ben lungi dal realizzarsi. Peanuts size prize money li chiama, il “prize money noccioline”, quello dei tornei futures e challenger, dove quando per andare in pari con le spese, se va di lusso, devi arrivare almeno in finale.

 

Guarda con invidia, Aubone, seduto in una povera players lounge di un piccolo torneo, il coach di un avversario che gli mette i grip sulle racchette, “deve essere bello avere un coach” dice, “a poterselo permettere”, “un coach ti vede da fuori, ti consiglia ti allena, ti prenota i voli , i campi di allenamento, ti fa migliorare”.

 

“È facile fare i conti, 27 tornei in un anno con un coach fanno 189 giorni di extra coaching, ma senza soldi non ti puoi permettere un coach, non puoi scegliere i tornei più adatti a te (per un problema ai tendini Aubone fatica a giocare sugli hard courts, ndr), senza uno sponsor devi perfino tenerti le tue vecchie racchette sfibrate, con le corde perennemente vicine alla rottura e mendicare di averne ancora 3 per l’anno dopo”.

 

Traspare chiaramente dai suoi post una certa ansia di chi ha piazzato una grande scommessa. E la sta perdendo.

 

La chiusura del 2015 lo ha visto, per la prima volta da quando ha iniziato la sua avventura, avere un ranking più alto di quello di inizio anno ed essere numero 597 in classifica è molto lontano dal suo sogno, seppur modesto, di entrare nelle qualificazioni di un torneo dello Slam. “Vorrei essere sull’Arthur Ashe court quella prima settimana di settembre”, racconta “non sul campo 11 del Blue Water Inn Resort di Blue Ridge ed essere cacciato da due signore cinquantenni che devono giocare il torneo sociale”, ma è cosi.

 

E poi ci si ritrova, seduti sul lettino sporco di un bed and breakfast, trovato fortunatamente in una regione rurale del Messico a pensare se ne valga la pena, dondolando il proprio telefono cellulare fuori dalla finestra, per cercare affannosamente la linea e chiamare la fidanzata da qualche parte nel mid west.

 
Mettendo in linea numeri su un foglietto di carta, numeri di giochi, di entrate, di opportunità e vedere che i risultati sono sempre in rosso, talmente in rosso che un medio giocatore da tornei challenger guadagna meno di un qualsiasi lavoratore immigrato sottopagato di un qualsiasi Kentucky Fried Chicken degli States.
 
All’inizio di quest’anno, Jean Yves ha ricevuto una telefonata, una proposta per diventare coach, un modo per diventare, di nuovo, finanziariamente indipendente, ma che fatalmente avrebbe chiuso la sua carriera di giocatore professionista.
 
La notte non ha dormito, poi la mattina seguente ha bevuto un cappuccino, messo le scarpe da running ed è andato in palestra. “Ok, il 99% dei giocatori non riesce ad entrare nei top 100, dunque chi mi può biasimare?”. “Ho provato, no big deal”, ha pensato, ma non ha chiuso, ha solo ripensato a un’assolata domenica di settembre nel 2008, quando ricevette una wild card per le qualificazioni agli US Open. “È li che voglio tornare” ha pensato, sprintando verso il campo di allenamento.