foto Getty Images – di Federico Mariani
Un gol di Éder nei tempi supplementari decide gli Europei pallonari. No, non il nostro Éder purtroppo altrimenti sarebbe impossibile avere in questo momento la sobrietà necessaria per occuparsi della rubrica del lunedì. L’altro Éder – Éderzito Antonio Macedo Lopes – che di mestiere fa sempre l’attaccante, è nato in Guinea ma gioca per il Portogallo. Già, i vicini di casa della Spagna hanno beffato tutti conquistando un inaspettato trofeo, figlio di sei pareggi in sette partite con annesso superamento del girone solo grazie al ripescaggio e alla discutibile formula targata 2016. È strano il calcio, Beppe [cit.]. Nel tennis (vivaddio) tutto ciò non sarebbe possibile e, infatti, nel weekend più importante dell’anno hanno ballato Serena Williams e Andy Murray, dominatori indiscussi dei rispettivi tabelloni dall’inizio alla fine.
ANDY DAI NERVI D’ACCIAIO. Sarebbe bello bullarsi di aver azzeccato entrambi i vincitori con due settimane di anticipo, ma anche un po’ ipocrita. Su Serena francamente non vi erano dubbi a meno di suicidi (sportivi), mentre per quanto riguarda la campagna maschile il pronostico si riduceva a poco più di un coin flip, come dicono quelli bravi col poker. E quindi, fuori Djokovic=vince Murray, facile no?! Assolutamente no. Non c’è errore più comune di banalizzare le vittorie altrui . Fu così per Federer (anche se in minor maniera), fu così per Nadal, è così per Djokovic ed è stato così nell’ultima settimana per Murray, la sua prima in uno Slam negli scomodi panni dell’uomo da battere. Dal diventare il maggiore indiziato alla vittoria al vincere passa un oceano e, accantonata per un attimo la parte tecnica e tattica dove obiettivamente il ragazzo di Dunblane non aveva avversari degni di lui dall’uscita di Djokovic, è obbligatorio esaltare i nervi dello scozzese: deciso, cinico, coraggioso, praticamente perfetto. Andy ha perso due set in tutto il torneo, entrambi contro Tsonga nell’unico vero momento di difficoltà delle due settimane all’All England Club, arrivato peraltro dopo aver incamerato i primi due set. La reazione alla paura si sostanzia in un rabbioso 6-1 nel quinto set e tanti saluti. La finale – l’undicesima a livello Major con soltanto due successi prima di ieri – è stata condotta in modo sublime, senza macchia, senza buchi, senza dare mai la sensazione di poter far entrare in partita Milos Raonic. 6-4 7-6 7-6, punteggi vicini nei numeri ma lontani nella realtà perché i tie-break, gli abituali terreni di caccia dei bombardieri come il canadese, sono cominciati rispettivamente 5-1 e 5-0. Murray si dimostra un cavallo di razza, un vincente. Strano a dirsi per uno che ha vinto appena tre delle sue undici finali pesanti, ma va rimarcato che nelle altre dieci dall’altra parte della rete si è trovato Djokovic e Federer, ovverosia avversari in quel momento più forti. Il perdente non è un giocatore che perde, ma un giocatore che tende a perdere pur avendo buone possibilità di vincere, è molto diverso. Al momento Nole resta superiore allo scozzese e il risultato Wimbledon non altera la gerarchia ben edificata dal serbo, mentre ciò che dice lo Slam londinese è che il resto della ciurma rimane staccato un bel po’ dal duetto di testa.
RAONIC SOLO SERV.. L’altro verdetto uscito dalla sacra urna di Church Road riguarda ovviamente il finalista, Milos Raonic. Il canadese è il classico esempio di luogocomunismo diffuso: tacciato a destra e manca di essere solo-servizio, mediocre, esteticamente inguardabile, con un campionario tutt’al più modesto. Allora, fatto salvo che si deve uscire dall’ottica che il servizio sia un dono più che un’abilità, non tener conto degli enormi miglioramenti compiuti da Milos in tutti gli altri reparti del gioco è da ciechi per non dire ipocriti. Nell’immaginario collettivo il servizio appare come un qualità figlia dei centimetri, una misteriosa entità celeste che – citando un buon 95% dei telecronisti – arriva o no nel momento del bisogno. Niente di più sbagliato. Il servizio è un colpo, al pari di dritto rovescio e volée, che può essere allenato e migliorato. Rasentare i due metri di altezza aiuta ovviamente, ma non è affatto una condicio sine qua non per assurgere allo status di bombardiere, altrimenti tutti quelli alti come Raonic (196 cm) dovrebbero servire come Raonic e ovviamente non è così. Accantonato il discorso servizio, sarebbe curioso scoprire come un giocatore che basa un buon 80% dei suoi successi sulla prima palla possa battere Federer e arrivare in finale a Wimbledon. Raonic, al contrario, è forse uno dei maggiori e attenti lavoratori sul circuito: si è contornato di uno staff formidabile dove le basi sono state gettate da quel genio di Riccardo Piatti, per essere poi impreziosito dai consigli di gente come Moya e McEnroe. Mica male! Raonic ora si muove benissimo per la sua stazza, è sempre letale col diritto, ha costruito un colpo più che decente nel rovescio e, soprattutto, ha migliorato esponenzialmente il gioco di volo, per lui utile come non mai. E non è un caso se tra la sciagurata generazione dei nati nei primi anni ’90 è l’unico – assieme al pluriinfortunato Nishikori – a poter ambire verosimilmente a traguardi altissimi. Per molti è stato un colpo al cuore vederlo in finale a Wimbledon, come se nelle ultime edizioni del più nobile degli Slam avessero vinto soltanto giocatori profondamente dediti all’offesa. A tal proposito l’altro, Murray, è arrivato in finale eseguendo due (!) serve&volley in sei partite…
Per quanto riguarda il resto della settimana, Roger Federer ha fatto battere forte il cuore di tifosi e appassionati. Lo svizzero – le cui reali condizioni fisiche sono più speculate di un titolo a Wall Street – si è reso protagonista di una meravigliosa rimonta contro Cilic, non erroneamente definita eroica, per poi perdere una psicodrammatica semifinale contro proprio Raonic. In spietata sintesi Roger ha vinto una partita che doveva perdere e perso un’altra che doveva vincere. La buona notizia risiede nel fatto che è ancora lì, fermo e convinto di voler girare ancora un po’ il mondo col borsone in spalla. La cattiva – più che una notizia è una conferma – è che non tornerà mai più a squillare in un Major, ma in fondo questo riguarda più da vicino soltanto la parte becera del tifo e non l’appassionato vero.
Nella parte bassa del tabellone si è rivisto in semifinale Tomas Berdych, bravo ad approfittare di svariati buchi in tabellone, non ultima la miserabile sconfitta rimediata per 10-8 al quinto dal misericordioso Tomic contro Pouille. Ebbene, in semi il buon Tomas è capitolato contro Murray con un periodico 6-3. 6-3 6-3 6-3, perfetto icnonograficamente come il suo tennis, ma inutile come la sua presenza in queste fasi del torneo. Il ceco è un meraviglioso piazzato, che nel suo caso però equivale all’essere un meraviglioso perdente. Ferrer pure, per fare un parallelismo solamente legato a risultati e ranking, era un grande piazzato ma pretendere di più da Ferru sarebbe stato pretestuoso (il 2016 dello spagnolo impone di parlare al passato). Tomas, invece, con quel po po di tennis doveva/deve/dovrà (?) fare sempre di più di quel che invece ha fatto/fa/farà (!).
BIG SERENA. Merita un cenno anche il torneo femminile, non tanto per l’esito ampiamente scontato, quanto per la finale. Premesso che dopo tre Slam ciccati Serena si sarebbe fatta seppellire sul Centre Court pur di portare a casa il Rosewater Dish (il contatore finalmente dice 22, come Steffi), l’ultimo atto contro Kerber è stato di un livello fantascientifico grazie soprattutto a una meravigliosa versione di Angie, per nulla rassegnata di fronte a una sconfitta pressoché certa. Un 7-5 6-3 sostanzialmente privo di errori gratuiti con Big Serena costretta a ricorrere al meglio del repertorio per avere ragione in due set. Due momenti sono emblematici della finale. Serena serve indietro 15-30 sul 5-5 del primo: prima vincente-ace-rovescio vincente. Serena offre la prima palla break della sua maestosa partita al servizio sul 3-3 del secondo set: ace-ace-prima vincente. What else? Non è un caso che dopo i suddetti momenti siano arrivati gli unici break della partita.
Anche per questa settimana è tutto. Ora avremo un po’ di nulla cosmico fino alle Olimpiadi di Rio, e quindi fino agli Us Open. Il prossimo weekend, tuttavia, sarà tempo di Coppa Davis con l’Italia che ospiterà a Pesaro l’Argentina e “Il tennis italiano” offrirà una copertura-monstre in loco mostruosa con ben tre inviati, praticamente più dei convocati di Barazza.