Vittima della globalizzazione, il paese dei canguri resta a galla con una forte vivacità dirigenziale e organizzativa. L’Australian Open è la base per restare importanti anche nei momenti di crisi. Che però stanno passando.
Di Riccardo Bisti – 17 gennaio 2015
Mancano poche ore all’Australian Open, primo grande evento del 2015. Oggi è un torneo super, senza più nulla di invidiare agli altri tre Major. Sicuramente è il più amato dai giocatori. Non sempre è stato così, come vi racconterà Federico Ferrero nell’imminente numero di TennisBest Magazine. Anche negli anni 90, quando Flinders Park (oggi Melbourne Park) aveva ridato ossigeno al torneo, non tutti i giocatori lo frequentavano. Oggi è una tappa imprescindibile, anche grazie allo sforzo di Craig Tiley e Tennis Australia per aumentare i montepremi e il comfort dei giocatori. Ed è lo specchio di un tennis sempre più globale. Niente di nuovo, per carità, ma i numeri del torneo che sta per iniziare parlano chiaro: le 32 teste di serie del tabellone maschile provengono da 21 paesi. Qualcuno in meno nel femminile: 18. In campo maschile, soltanto quattro paesi hanno più di un rappresentante tra le teste di serie: Spagna, Francia, Svizzera e Repubblica Ceca. Tra le donne, i paesi con multi-rappresentanza sono otto: Russia, Repubblica Ceca, Germania, Stati Uniti, Serbia, Australia, Italia e Spagna. Queste cifre sono il simbolo di un’evoluzione sempre più marcata. Oggi, il tennis è il secondo sport più internazionale al mondo. Soltanto l’atletica leggera, con i suoi tanti campioni provenienti dall’Africa nera, ha una rappresentanza ancora più vasta. E pensare che tanti anni fa c'era il dominio degli Stati Uniti. Nei primi anni 80, c’è stato un momento in cui oltre quaranta top-100 avevano il passaporto a stelle e strisce. Ed anche l'Australia era grande protagonista. Oggi la situazione è profondamente cambiata.
LA NORMALITA' E' OGGI
A ben vedere, il tennis è diventato una faccenda sempre più europea. Ed è un paradosso, visto che il vecchio continente fatica a mantenere i propri tornei a favore della ricca onda asiatica. Ma i giocatori continuano ad arrivare da qui: delle 64 teste di serie, ben 50 provengono dall’Europa. Tra i restanti quattordici c'è anche chi arriva da paesi un tempo sconosciuti al grande tennis: Cina, Giappone, Colombia e Uruguay. Questa chiave di lettura viene interpretata come “positiva” da una parte della stampa australiana. Legano la crisi non tanto a fattori interni, quanto alla globalizzazione del tennis. “Siamo in linea con quello che è diventato uno sport globale, anche se l’Africa deve ancora essere conquistata” ha scritto Malcolm Knox su The Age. In effetti, la federtennis locale non si limita a organizzare uno Slam meraviglioso (quest’anno distribuirà 40 milioni e ci sarà il tetto su tre campi), e nemmeno a sostenere i tornei più piccoli (Hobart è in crisi ma terrà duro grazie al supporto federale). Pare che i numeri dei praticanti siano in crescita a tutti livelli. Il problema riguarda i giocatori di alto livello, pur con la consapevolezza che l’età dell’oro non tornerà mai più. Semmai, la normalità è oggi. Una normalità che non preclude la presenza di ottimi giocatori, visto che Kyrgios, Tomic e Kokkinakis sono un trio potenzialmente fortissimo. Ma sarà fondamentale mantenere uno spicchio di calendario tutto per sè. Non è un segreto che l’Australian Open sia lo Slam più a rischio. E’ un paradosso, perchè in tante cose è migliore rispetto gli altri, ma la posizione geografica dell’Australia è ancora molto scomoda (e costosa). La Cina, in particolare, ha la forza economica per organizzare uno Slam. Consapevoli che la tradizione è un’arma importante, gli australiani non sono rimasti con le mani in mano (a differenza di Miami: 20 anni di immobilismo hanno fatto scappare gli sponsor e il futuro è tutt’altro che roseo). Migliorano le strutture, offrono più soldi, trattano i giocatori come star.
UN RUOLO DA CONSERVARE
L’esperienza ha insegnato molto. C’è stato un periodo, a cavallo tra gli anni 70 e 80, in cui l’evento ha vissuto una forte crisi. Quegli anni hanno segnato l’inizio del declino della potenza australiana. Dopo una decina d'anni in cui si è giocato a dicembre, il torneo è stato spostato a gennaio e la costruzione di Melbourne Park ne ha salvato il prestigio. I numeri? Nel 1987, ultima edizione a Kooyong, ci furono 140.000 spettatori (oggi gli Internazionali BNL d’Italia, che durano la metà, ne fanno 175.000). Nel 1994 hanno superato i 300.000, nel 2008 i 600.000, e lo scorso anno c’è stato il record di 686.000 spettatori. Lo Us Open non è così distante. Questi numeri danno ossigeno e credibilità al tennis australiano, anche perchè i prezzi dei biglietti non sono così popolari. Un tagliando per la finale maschile può costare anche 400 dollari. Eppure, il prezzo non è un deterrente. Significa che gli australiani vogliono restare importanti anche nel tennis, per quanto sia sempre più difficile. Anche da loro non mancano i campanilismi, sublimati dagli sport di squadra (il football australiano è seguitissimo, anche una leggenda come Pat Cash si è scattato un selfie mentre esultava per la sua squadra). Però non vogliono chiudersi in se stessi e vogliono ridisegnare il loro ruolo. Un tempo comandavano insieme agli americani, oggi non lo possono più fare. Ma questo non significa che non possano essere ancora protagonisti. Kyrgios, Tomic e Kokkinakis avranno una responsabilità in più.
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