Il tennis americano punta sulle donne: il doppio successo di Madison Keys e CoCo Vandeweghe nei tornei pre-Wimbledon può segnare l’inizio della riscossa?

Di Alessandro Mastroluca – 22 giugno 2014

 
Due Miss American Dream salvano il tennis Usa. Il sogno americano, scriveva James Truslow Adams, che ha introdotto questa espressione nel 1931, “Non è semplicemente un sogno di macchine costose e stipendi alti, è il sogno di un ordine sociale in cui ogni uomo e ogni donna possono raggiungere il massimo che le loro innate qualità gli permettono di ottenere, e di essere riconosciuti per quello che sono, indipendentemente dalle fortuite circostanze di nascita o posizione”. Un sogno che il tennis ha trasformato in realtà per generazioni. Da qualche anno l'American Dream del tennis è diventato un sogno a metà: il tennis maschile si limita a contemplare la gloria del passato, ormai svanita, che si specchia solo nelle strizzatine d'occhio di giovani ragazze. Ragazze come Madison Keys, entrata per la prima volta tra le prime 30 WTA che dalla prossima settimana sarà la miglior teenager del mondo, e Coco Vandeweghe, che salirà al numero 39. Due promesse mantenute che hanno vinto il primo titolo in carriera a poche ore di distanza l'una dall'altra, a Eastbourne e 's-Hertogenbosch, dominando la settimana pre-Wimbledon: era dal 2002, quando Venus Williams e Monica Seles si imposero ad Anversa e Doha, che due tenniste Usa non vincevano un titolo WTA nello stesso giorno.
 
LE CHIAVI DEL SUCCESSO
La crisi del tennis USA è, di base, una crisi di rappresentanza. Sparito o quasi un modello di sviluppo, quello dei campi pubblici, che ha permesso di scrivere pagine di storia di questo sport (un nome su tutti: McEnroe), il sistema delle academies private si è rivelato più attraente e produttivo per gli stranieri che per i giovani americani. I risultati dei tennisti USA, che non vincono uno Slam dallo Us Open di Roddick del 2003, non rappresentano più la storia di questo sport. E' così perché il tennis non rappresenta più la storia dei giovani americani, che spingono il loro talento verso discipline più remunerative come il basket o il football. “In quasi tutto il mondo – scriveva Rino Tommasi – i futuri campioni sono il prodotto di un'industria famigliare e da quelle parti non è più pensabile che i genitori trascurino il lavoro per sostenere le ambizioni e le qualità di un figlio o di una figlia come è accaduto con Connors, Agassi e le Williams”. Per le donne, però, le alternative sportive non sono così allettanti. Al femminile, il tennis è forse lo sport che ripaga di più i successi, che consente il pieno raggiungimento del potenziale individuale, fascino e cuore del sogno americano. Giocatrici come Madison Keys costituiscono la naturale conseguenza di questo percorso che sposta nella WTA l'onore e l'onere di mantenere ai vertici la bandiera a stelle e strisce e quel modo tipicamente americano di stare in campo, quel modo di intendere lo sport con la propensione al rischio e lo spirito di iniziativa dei pionieri che partivano alla ricerca del West.
 
MADISON NON STUPISCE
I 60 vincenti e i 17 ace di Madison nella finale di Eastbourne, contro una giocatrice incostante ma per nulla arrendevole come Angelique Kerber, danno la chiara dimensione numerica di una prestazione deluxe. Un'epifania di una settimana in cui ha battuto due top-10, più di quante ne avesse sconfitte in tutta la sua giovane carriera (Na Li a Madrid nella famosa partita in cui la chiamarono in campo mentre studiava algebra), in cui il suo istinto di colpitrice, il suo footwork sempre puntuale, la lucidità nella lettura del gioco hanno fatto la differenza. A Eastbourne, Keys ha trasfuso il suo modo di essere nel suo modo di giocare. Non stupisce, vedendola tirare forte ma sempre con un'idea dietro ogni palla, che tenga i vestiti ordinati per colore nell'armadio di casa. Non stupisce, vedendola provare e trovare una palla corta perfettamente mascherata, che si diverta a fare la turista dopo le sconfitte invece di chiudersi in stanza a rimuginare sugli errori o che si ritrovi a cantare nei momenti di relax con le amiche tenniste. Non stupisce che abbia sempre avuto le idee chiare e che, per quanto il contesto non sia euristicamente il più valido, a 14 anni abbia sconfitto Serena Williams in una partita del World Team Tennis. Da allora, è diventata una delle tante “nuove Serena Williams”. Da questa settimana, però, le sue possibilità di arrivare ad esserlo sul serio si sono alzate e non poco.
 
COCO N.80
C'è un altro numero che spicca nella settimana tennistica che porta ai Championships, gli 80 ace complessivi firmati da Coco Vandeveghe. Alla seconda finale in carriera ha relegato a comprimaria Zheng Jie, che tra i passaggi di una carriera incostante ha comunque giocato una semifinale a Wimbledon. Coco è cresciuta con il peso di un cognome pesante negli Usa. Suo zio è il leggendario Kiki, stella e poi general manager dei Denver Nuggets, l'inventore della Kiki move, un movimento con finta d'entrata, palleggio smarcante e tiro in sospensione saltando all'indietro. Sua madre, Tauna, è stata nella nazionale olimpica di nuoto a Montreal '76 e di pallavolo a Los Angeles '84. Suo nonno Ernie (marito della Miss America Colleen Kay Hutchins), ha giocato con i Knicks dal 1949 al 1956, oltre ad essere un fisico e un veterano di guerra. Suo zio Bruk, fratello della madre, ha vinto il bronzo ai Goodwill Games del 1994 nel beach volley. Cresciuta in una famiglia polisportiva, arriva al tennis tardi, a 11 anni, e dopo cinque già vince gli Us Open junior senza perdere un set. La strada per il successo sembra spianata: arrivano il sostegno di Lindsay Davenport e il contratto con l'IMG: a notarla fu Max Eisenbud, agente di Sharapova e Li Na. Una strada che a livello junior procede a passo speditissimo, con le lunghe falcate che il fisico le consente: a 15 anni è già alta 1.80, grazie ai geni che gli ha trasmesso nonna Colleen, la Miss America più alta all'epoca. Altezza mezza bellezza, allora come oggi. Ma come la nonna, che quasi si vergognava di quel titolo (tanto da non dirlo per anni ai figli e tenere il trofeo nascosto in soffitta), Coco si è scontrata con avversarie che non volevano giocare con lei perché tirava troppo forte, che l'accusavano senza motivo di barare. Dopo la convocazione per la finale di Fed Cup nel 2010 e la finale persa a Stanford da Serena Williams due anni fa, la strada si è fatta più in salita. Coco comunque non si è persa, aiutata anche dalla mamma che un tempo le faceva da sparring partner e ha seguito il suo volo senza interferire. “Non ho mai chiesto a mia figlia di vincere una partita – ha raccontato – un atteggiamento normale, che però la maggior parte delle famiglie delle giovani giocatrici non ha”. È anche con una famiglia così che adesso Coco ha guadagnato 30 posizioni, che entrerà per la prima volta in top-40 e può sognare di vincere la sua prima partita a Wimbledon. Anche così la nipote di Miss America 1952 costruisce il suo presente e prepara il suo futuro da Miss American Dream.