IL PIÙ GRANDE TALENTO TECNICO DELLA STORIA (SORRY, ROGER) MA ANCHE IL PIÙ IRASCIBILE E INCONTROLLABILE. E QUELLA FINALE PERSA A ROLAND GARROS, DIVENTATA UNO SPARTIACQUE TRA LA FANTASIA DEI GESTI BIANCHI E L’EFFICIENZA DEL TENNIS MODERNO

Da qualche parte si dovrà pur cominciare. Anche con John McEnroe, che è sempre stato una storia troppo grande, con troppe sfumature, per essere ridotta a un articolo di giornale. Non per quel che faceva fuori dal campo, beninteso, le fidanzate celebri, la chitarra e qualche eccesso. E neppure dentro, vedi alla voce You Cannot Be Serious, le sfuriate e gli insulti che sono persino troppo ricordate. Ma per quel che ha rappresentato il suo modo di giocare, così unico e irripetibile che negli anni in cui lo avevamo sotto agli occhi non ce ne rendevano neppure conto, che non ce ne sarebbe mai più stato uno fatto in quel modo. Allora ci limitiamo a un paio di reperti storici. A una fotografia. Un giovane Mac sdraiato sul letto di un hotel, sulle lenzuola ci sono oggetti sparsi: un romanzo di Robert Ludlum, che era il John Grisham di quegli anni, molte cassette, sui frontespizi delle quali si possono leggere i nomi delle rock band che andavano di moda allora, per fortuna di chi c’era. Sul comodino c’è un bicchiere che somiglia molto a un drink. E al centro lui, che è un riassunto perfetto di tutto quel che c’è intorno, ovvero la libertà, anche l’inquietudine, comunque la capacità di immaginare figlia degli anni Settanta, quelli americani, non certo i nostri. È impossibile non associare la capacità quasi jazzistica di improvvisare, la fantasia che rende degno di essere visto anche il più banale dei suoi colpi, allo spirito dell’epoca. Al mondo nel quale è cresciuto John Patrick McEnroe Junior, figlio di quella New York, di quel tempo, che inevitabilmente ha influito sul suo modo di intendere il tennis, e la vita. Oggi il talento è qualcosa che va addomesticato e gestito. «Metti ordine nel tuo gioco» è il mantra recitato da qualunque allenatore. McEnroe non lo ha mai fatto, come quando giocava a soccer e il suo gesto preferito era cercare di far gol dal calcio d’angolo, senza capire perché i compagni lo mandavano a quel paese ogni volta che non gli riusciva il miracolo. Davvero, basta farsi un giro su YouTube. Non si trovano troppi colpi simili tra loro, ma soprattutto si intuisce una spontaneità ormai perduta nello sport moderno, il tennis come rapsodia, lo sport come espressione di genio finalizzato alla vittoria.

Il secondo reperto potrebbe essere una videocassetta, il film di una partita che, diciamoci la verità, pochi hanno voglia di rivedere, soprattutto con il senno di poi. Quando sai che il film, per quanto bello, finisce male, tendi sempre a spegnere la televisione, a riavvolgere il nastro. Alle 19.08 del 10 giugno 1984, McEnroe mette in rete una facile volée di dritto. Dall’altra parte esulta l’incredulo Ivan Lendl, il suo esatto contrario, sportivo e non solo. Game, set and match. La finale di Roland Garros è andata, dopo essere stato in vantaggio di due set e un break. E non per colpa di un Lendl improvvisamente ingiocabile, ma per una sciocca distrazione, un microfono lasciato acceso a bordocampo che, a suo dire, lo distraeva («In realtà se la prese prima con noi fotografi – ricorda Gianni Ciaccia – perché all’epoca non c’erano le digitali e quando scattavi, il click si sentiva eccome. Poi gli abbiamo spiegato di cosa si trattava e lui ha quasi distrutto la telecamera»). Tanto è bastato per perdere un match, lui che era imbattuto da 42 partite. Vincerà poi Wimbledon lasciando cinque game a un furente Jimmy Connors, a Flushing Meadows si prenderà la rivincita sullo stesso Lendl scherzandolo in tre set. Chiuderà quell’anno con un record di 82 vinte e solo tre partite perse, prestazione ancora ineguagliata. E con il più odioso dei suoi molti scatti di nervi in quel di Stoccolma, torneo poi vinto, dove diede del «coglione» al giudice di sedia e in cambio ricevette tre settimane di squalifica. Ma di quella stagione eccezionale, tutti (lui per primo) ricordano quella sconfitta a Parigi. Perché da occasione ghiotta di vincere sulla terra rossa, quel Roland Garros divenne qualcosa di più definitivo. Uno spartiacque, un cambio di stagione. Quel giorno il tennis entrò nell’era della sua riproducibilità tecnica, anche se nessuno di noi se n’era accorto. Pensavamo tutti che ci sarebbe stata un’altra possibilità, che avremmo ancora visto tanto di quel tennis così fantasioso e vicino all’arte, da Mac e dai suoi epigoni che eravamo certi ci sarebbero stati. Invece cambiò tutto. Non sempre il genio può battere la forza elevata a metodo. In quella finale McEnroe e il tennis classico dovettero cedere il passo a un nuovo ordine, al gesto ripetuto, alla meccanicità che prendeva il sopravvento sull’improvvisazione. Quel giorno si compì il suo destino sportivo. E forse anche il nostro di amanti dei gesti bianchi. Quelli belli, unici. Irripetibili. Da conservare e custodire nella memoria. Come il tennis che giocava John Patrick McEnroe Junior.