
Draper ha avuto un primo match-point nel tie-break del secondo set, ma l’ha mancato, ha perso il set e in avvio di terzo ha ceduto per la prima volta la battuta. Ma invece che perdere la bussola ha immediatamente recuperato lo svantaggio, e da lì è iniziata la battaglia vera, punto su punto, proseguita per tutto un terzo set lungo ben 156 minuti. Non pareva affatto che in campo ci fossero due juniores, per capacità di tenere i nervi saldi e di gestire una partita così preziosa per la loro giovane carriera. Nel terzo set è stato sempre Draper a comandare, ma la sua partita si è trasformata in un calvario di match-point mancati, anche per merito di un avversario monumentale in buona parte delle occasioni. La maggior abitudine del diciottenne di Bogotà a giocare certe partite si vedeva a occhio nudo, tanto che per ben tredici volte è riuscito con successo a servire per rimanere nel match, ma stavolta Draper (che giovedì aveva sconfitto ai quarti il nostro Lorenzo Musetti, altro di cui sentiremo parlare…) ne aveva semplicemente di più, come ben dimostrato in dei turni di servizio dominati con agio. Il problema era convertire almeno uno di quei benedetti match-point. Se n’è fumati nove in tutto: sul 5-4, sul 7-6, sul 9-8 e sul 13-12. Tolto l’angolo del rivale non c’era una sola persona che non tifasse per lui, sempre con maggiore insistenza, e Draper ha provato a coinvolgerli, a portarli dentro alla partita, anche con qualche gesto teatrale. Sulla palla match numero otto ha invocato addirittura l’aiuto del cielo, con le mani giunte, ma invece che la grazia divina è arrivata una prima robusta del rivale, che l’ha obbligato a rimandare di nuovo i suoi propositi. Per fortuna il decimo match-point, sul 18-17, è stato l’ultimo, finalmente quello buono.

Draper ha risposto bene, ha sparato un paio di diritti con coraggio e ha chiuso con uno smash, col quale ha scaricato nella metà campo dell’avversario tutta la sua voglia di prendersi la finale, e gettare le basi di una carriera importante. A differenza di Anderson lui la forza per esultare ce l’aveva: si è lasciato cadere a terra e poi ha tirato un paio di pugni al campo, per sfogare la tensione, ma poi si è dovuto contenere perché Mejia era distrutto psicologicamente, anche più di Isner, tanto da versare qualche lacrima. “Questa partita è stata una tortura – ha detto Draper in conferenza stampa –, ed ero sicuro al 100% che quello smash l’avrei sbagliato, perché di recente Ryan si è lamentato di quanto sono scarso nello smash, specialmente nella ricerca della palla con i piedi. Non so come ho fatto a metterlo in campo, non sono nemmeno certo di averla colpita al centro delle corde”. Ryan è Ryan Jones, il suo coach, al quale vanno tanti meriti per la crescita con servizio e diritto, i due colpi fondamentali per vincere la partita sotto gli occhi anche del capitano di Coppa Davis Leon Smith, e soprattutto della madre e del fratello Ben, anche lui tennista, che da qualche tempo ha scelto la strada del college, mollando il Regno Unito a favore degli States. Nel match più lungo della storia di Wimbledon juniores hanno sofferto tutti insieme a lui, che grazie ai buoni risultati recenti si era guadagnato anche una wild card per le qualificazioni del torneo vero e proprio. Ha perso subito con l’egiziano Safwat, ma per mettere piede all’All England Club ha dovuto solo attendere il via del torneo juniores, e sette giorni dopo sarà in campo per la finale, contro il numero uno del mondo Chun Hsin Tseng. Il taiwanese è stato in campo 3 ore e 23 minuti meno di lui, ma sedici anni (ne compirà 17 il prossimo 22 dicembre) certe fatiche si sentono meno. Specie quando c’è un titolo di Wimbledon all’orizzonte.
