Doloroso parallelo tra John Isner e il Simone Bolelli. Il primo era un lungagnone dal solo servizio, mentre di Bolelli dicevano "Somiglia a Federer". Quattro anni dopo…
John Isner e Simone Bolelli, rispettivamente numero 10 e 109 ATP
Di Federico Ferrero – 21 marzo 2012
Dal faldone delle telecronache 2007 tiro fuori un foglietto. Sono gli appunti di tre match dell’Atp di Washington DC. Isner-Becker (Benjamin), Isner-Haas, Isner-Roddick. Frasi sparpagliate ai lati dello scout delle partite: no rov(escio), plantigrado, big serve, si passa la palla tra le gambe prima di servire. Ancora: chiamato GrandPa (il Nonno, soprannome che i compagni di stanza del campus della Georgia Tech avevano adottato perché passava le giornate sul divano a riposare i due metri di membra. Era sempre stanco). Tommy Haas: «Credo che l’Atp dovrebbe proibire per statuto di giocare a tennis a quelli più alti di due metri». Cos’era successo? Un ragazzo del college, fresco campione NCAA e 745 al mondo – era professionista da qualche settimana – si era intrufolato nel tabellone di un torneo Atp con una wildcard e aveva vinto cinque partite di fila. Tutte al tie-break del terzo set. Motivo? Serviva col fucile: centoquaranta e più ace in una settimana. Quindici anni prima la gente si scandalizzava per i cento ace in sette partite al meglio dei cinque set di Ivanisevic a Wimbledon.
Quel John Isner, che Federer in quella stessa estate aveva incontrato al terzo turno degli Us Open (perdendo un set, ovviamente al tie-break) non era un granché. Avevo messo una stelletta accanto al nome. Una stelletta: mah. Due stellette: buono. Tre stellette: super. Nessuna stelletta: Gimeno Traver o giù di lì. Incapace di muoversi lateralmente, di rovescio era imbarazzante. Gran dritto ma da fermo, buona tecnica al volo ma di una lentezza quasi irritante nella discesa a rete. E poi il servizio, certo, centro di gravità permanente del suo essere tennista. Un mese più tardi ero sul Centrale di Flushing Meadows quando Roger gli prendeva pian piano le misure, stirate all’inverosimile: tempo un set e fine della partita. Dove sperava di arrivare, quell’Isner imbullonato al terreno? Quale buontempone gli aveva consigliato di mollare il basket per provarci col tennis? Una stelletta, non di più.
«Somiglia a Federer». Fra un applauso e l'altro del campo numero 2 del Roland Garros, traboccante di orgoglio italiano, il c.t. di tutte le nazionali azzurre, Corrado Barazzutti, non è il primo che paragona la grande speranza Simone Bolelli al numero 1 del mondo.
Ritaglio di giornale rosa del 27 maggio 2008. Letto quattro anni dopo è difficile decidere se incamminarsi per la strada del sarcasmo (ma no, che poi mi accusano di antitalianismo e mi tocca regalare altre copie del Provinciale di Bocca) o per il viottolo della nostalgia amaricante. Simone aveva appena stracciato l’ex finalista degli Oz Open, Baghdatis, e superato Del Potro al secondo turno del Roland Garros. Oh: in pochi ricordano che poi prese tre set a zero contro Llodra al terzo turno, ma ormai non importa più (comunque fosse, accanto a Bolelli due stellette. L’avesse scoperto Claudio Pistolesi, che la terza stelletta l’avevo data a Simon e non a Simon(e), credo se la sarebbe presa ma Gilles, quell’anno, era partito 29esimo terminando al Master, con un torneo di Madrid alla Isner, quattro match vinti 7-6 al terzo: insomma, avevo ragione io).
E Isner? Non lo ricordava nessuno: persi i punti della finale di Washington, si iscriveva ai challenger di Lubbock e Calabasas sperando di non scivolare fuori dai primi 150 del mondo.
Con questi due frammenti di vita si potrebbe scrivere una storia.
C’è un italiano di Budrio che somiglia a Federer, eppure oggi divide la posta con Nielsen e Teixeira nei tornei dimenticati da Dio. Aveva dei problemi: il rovescio andava e non andava, la risposta non andava quasi mai, gli spostamenti laterali valevano un seconda categoria. Spirito del lottatore? Non pervenuto.
C’è un palo della luce di Greensboro che ha imparato ad accettare i suoi limiti (perché col 52 di piede e due metri e 5 da spostare su e giù, destra e sinistra devi accettare i tuoi limiti) ma li ha voluti toccare. Oggi Isner, col rovescio, risponde. Fa il punto pure a Djokovic, ogni tanto. Lui, che giocava più tie-break di Karlovic e Rusedski, oggi risponde. Si muove, Isner. Corre per ore: lasciamo stare The Match, le undici ore di Wimbledon 2010 con Mahut: con Roddick, Us Open 2009; Nadal, Roland Garros 2011; Federer, Coppa Davis 2012. Non è più lo stesso. Oggi è un tennista. Da questa settimana, pure un top ten. Che avrà fatto, il suo coach Craig Boynton? Scoperto la pietra angolare? Gli avrà riprogrammato il Dna? O lo ha messo sotto con la frusta, tirando fuori il massimo da un lottatore più feroce di un Roddick ferito?
Il sosia di Federer, invece, ha continuato a fare il sosia di Federer. Ha la stessa età di Isner, quasi 27. Oggi imita Federer a Santiago del Cile, primo turno, contro Eduardo Schwank (188 Atp). E perde: sei quattro, sei zero. Fine della storia.
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