“Non esiste più”. Tre parole scritte da Nick Kyrgios in una conversazione social con i fans potrebbero essere la pietra tombale dell'International Premier Tennis League. La notizia si è poi diffusa a macchia d'olio: pare che lo stesso Mahesh Bhupathi, ideatore e organizzatore, abbia confermato la fine di un prodotto nato in pompa magna tre anni fa ma che lasciò, sin da subito, mille dubbi sulla sua sostenibilità. Detto che non si trova traccia – almeno online – delle interviste rilasciate da Bhupathi ai media indiani, se la notizia fosse confermata sarebbe opportuna una riflessione sulle manifestazioni di questo genere. Ma andiamo con ordine. Era il 25 maggio 2013: mentre l'attenzione era tutta sul Roland Garros, proprio a Parigi Mahesh Bhupathi annunciò la nascita di un evento senza precedenti, la cui formula avrebbe ricordato l'Indian Premier League di cricket. L'obiettivo era creare sei franchigie nel sud est asiatico (ma non solo) e mettere in piedi una competizione di 15-20 giorni con regole nuove e innovative. A parte l'enorme battage pubblicitario, l'IPTL non si è mai mossa nella totale trasparenza, tanto che per conoscere le sedi delle gare abbiamo dovuto aspettare il 21 gennaio 2014: Bangkok, Hong Kong, Kuala Lumpur, Mumbai e Singapore. Una sesta franchigia (poi risultata essere Dubai) sarebbe stata annunciata soltanto più in là. In verità, ci fu un mucchio di confusione: non si capiva se si sarebbe giocato a Hong Kong, e se le squadre sarebbero state cinque o sei.
SFARZO INIZIALE
Il 2 marzo 2014 fu effettuato il primo draft, in perfetto stile NBA, cui parteciparono soltanto Bangkok, Mumbai, Singapore e Dubai. Un paio di mesi dopo, la squadra di Bangkok sarebbe stata sostituita da quella delle Filippine. Nella più totale confusione, hanno partecipato alla prima edizione soltanto quattro squadre (rispetto alle sei inizialmente previste): Manila Mavericks, UAE Royals, Indian Aces e Singapore Slammers. Nonostante le enormi difficoltà logistiche, l'interesse mediatico fu enorme: la presenza di tutti i migliori giocatori, almeno per una partita, accese il clamore in un periodo solitamente privo di eventi. Pagando ingaggi faranoici, l'IPTL portò Federer, Nadal, Djokovic, Serena, Sharapova e tanti ex campioni a giocare in posti improbabili come Saitama, Manila o Hyderabad. Lo sfarzo era assoluto, così come l'esposizione TV: tramite una serie di accordi, l'evento fu trasmesso in 125 paesi, per un potenziale pubblico di 300 milioni di famiglie. Gli spostamenti da una sede all'altra avvenivano in jet privati, e tutto era rigorosamente documentato da foto e filmati. Per un paio di settimane, il tennis era entrato in una nuova dimensione, un incrocio tra NBA, wrestling e carrozzone professionistico da anni 50-60. Ma d'altra parte c'erano i soldi, molti soldi. Pensate che il primo draft fu regolato un salary cap di 10 milioni di dollari (!). Il modello di business era chiaro: spese enormi, ma incassi altrettanto importanti da tre fonti principali: le franchigie stesse (acquistarne una costava fiori di quattrini), gli sponsor (arrivarono partner di portata mondiale come Coca Cola, addirittura title sponsor, e Qatar Airways) e una notevole copertura TV. Evidentemente, qualcuno aveva sbagliato i calcoli. Tuttavia, il modello di business sembrò ancora sostenibile.
VORAGINE FINANZIARIA?
Nel 2015 si è giocato fino al 20 dicembre ed è arrivata una nuova franchigia, i Japan Warriors. Il forfait di Djokovic fu compensato dall'arrivo di Andy Murray. Così, in scioltezza. La terza edizione ha iniziato a mostrare crepe importanti: intanto le squadre si sono ridotte a quattro per l'uscita di scena dei Philippine Mavericks (ex Manila Mavericks), i quali sostennero che l'IPTL non aveva adempiuto agli obblighi contrattuali. Una terribile botta all'immagine è arrivata con i forfait di Roger Federer e Serena Williams, peraltro annunciata a torneo in corso. Motivo? Non c'erano fondi a sufficienza per pagarne gli ingaggi. E così, i tre giocatori più forti rimasero Kei Nishikori, Nick Kyrgios e Tomas Berdych. Un po' poco, per una manifestazione che prometteva di rivoluzionare il gioco. Risolta in una decina di giorni, la terza edizione sembrava figlia di un ridimensionamento, una “normalizzazione”. Invece, a quanto pare, c'era una voragine finanziaria. Un paio di mesi fa, una fonte anonima ha rivelato al Times of India che l'IPTL non aveva pagato alcuni giocatori, e che ci fossero una serie di cause legali in arrivo. Il silenzio assordante sui canali social (che invece erano stati un punto di forza in passato) era un altro indizio. Oggi la notizia dovrebbe essere ufficiale, o quasi. Quanto accaduto all'IPTL deve essere un monito per chi organizza eventi di questo tipo: la mente corre alla Laver Cup, strepitoso successo di un mese fa, oppure alle imminenti Next Gen ATP Finals. La sensazione è che sia molto difficile inserire eventi nuovi – e non ufficiali – in un calendario già stracolmo. L'unico motore a tenerli in vita è il denaro: se viene a mancare il supporto finanziario, non esistono appigli per tenerle in vita. Un paio di mesi fa, una fonte vicina a Bhupathi disse che l'ex doppista indiano (oggi capitano di Coppa Davis) stava lavorando per provare a riproporre l'iniziativa, ma su basi diverse. Da allora, tutto tace. D'altra parte, lo aveva detto Stan Wawrinka, vincitore dell'edizione 2015 con i Singapore Slammers. “Inutile prenderci in giro, tutti sanno il motivo per cui giochiamo questa competizione”. Non alludeva certo alla gloria.