Due anni fa sembrava aver gettato le basi per l’ingresso nei primi 100 del mondo, invece la carenza di continuità l’ha rispedito a lottare nei tornei Challenger. Ma Andrea Arnaboldi ha ancora tanta voglia di provarci. A (quasi) 30 anni continua a lavorare con un solo obiettivo in testa, e giura di essere pronto per andare a prendersi ciò che gli spetta.Il suo picco di popolarità Andrea Arnaboldi l’ha vissuto nel 2015, quando il grande lavoro tecnico e mentale svolto col coach Fabrizio Albani e con lo psicologo dello sport Roberto Cadonati ha dato i suoi frutti. Il tennista di Cantù si è qualificato agli Internazionali d’Italia e poi ha fatto miracoli su miracoli al Roland Garros. Nelle qualificazioni ha vinto contro Pierre-Hugues Herbert il match al meglio dei tre set più lungo (per durata e game disputati) nella storia del tennis maschile, imponendosi per 6-4 3-6 27-25 dopo 4 ore e 30 minuti; poi si è guadagnato il main draw e ha anche superato un turno. Grazie ad altri risultati sarebbe salito al numero 153, gettando le basi per crescere ancora e mettendo tutti d’accordo: il 2016 sarà l’anno dell’esplosione, dei top-100. Invece ha chiuso quella stagione da numero 270, e dodici mesi più tardi è giusto una trentina di posizioni più in alto. Ma il suo tennis mancino è rimasto lo stesso: veloce, divertente, diverso. E con i 30 anni da festeggiare fra cinque giorni, l’azzurro non ha alcuna intenzione di mollare. Anzi, se possibile ci crede ancora più di prima.

A fine 2015 coach Albani diceva “secondo noi Andrea non è neanche al 50% delle sue possibilità”. Due anni dopo come è evoluta la situazione?
Ahimè è evoluta poco, non come volevamo. La classifica è li da vedere, e non è quella che ci aspettavamo e che vogliamo. Ma il lavoro non cambia. Continuiamo a crederci e lavorare per entrare nei primi 100 del mondo. Sarà più difficile rispetto al 2016, perché nei due anni che sono passati ho smarrito un po’ di quella forza che ci si costruisce grazie ai risultati. Ero arrivato intorno al numero 150, ma non ho sfruttato quella possibilità e al momento la classifica non mi è favorevole. Ma allo stesso tempo in due anni di tempo le mie competenze sono migliorate: conosco meglio me stesso e il mio tennis, e questo può diventare un vantaggio. Con grande applicazione penso ancora di potercela fare.

Il tuo anno doveva essere il 2016, lo pensavano tutti. Come mai non lo è stato?
Sono emerse delle mie lacune sulla costanza di rendimento. Nel corso dell’anno ho toccato picchi di rendimento molto alti, come quando ho raggiunto i quarti di finale all’ATP 250 di Bastad e in altre occasioni, ma sono stati casi isolati. Mi è mancata la continuità nei risultati, quella che mi ha spesso tradito nella mia carriera. Non è semplice trovarla, ma non credo sia irraggiungibile. Ho il livello e le potenzialità per riuscirci.

Con che motivazioni lavora un ragazzo di 30 anni che ancora non è riuscito a fare il salto tanto atteso?
Ci sono dei momenti difficili, tosti, in cui non dico che capita di demoralizzarsi, ma qualsiasi cosa diventa più pesante. Se manca il supporto dei risultati si fa più fatica a entrare in campo e a lavorare ogni giorno. Però se la motivazione è alta, e c’è un obiettivo ben definito, un giocatore non sta molto a badare all’età. Io sto bene fisicamente e voglio raggiungere quell’obiettivo. Mi applico per riuscirci, e non mi pesa entrare in campo a soffrire di prima mattina.
Dopo qualche anno, nel 2017 sei tornato ad avere una classifica non sufficiente per entrare nelle qualificazioni degli Slam, e ne ha persi tre su quattro. Quanto pesa psicologicamente?
Non è stato facile accettare di non poter giocare, così come tornare talvolta a disputare le qualificazioni dei tornei Challenger, altra cosa che non mi accadeva da tempo. Però se uno vuole davvero raggiungere un traguardo deve essere disposto a fare il necessario. Il discorso degli Slam ammetto che un po’ l’ho accusato, ed è importante giocarli anche dal punto di vista economico, perché incidono molto sugli incassi. Vedere che quando usciva il tabellone delle qualificazioni io ero a giocare altrove, un po’ mi ha dato fastidio. Però, nel bene o nel male, la responsabilità di ciò che succede è sempre mia.

Pensi di aver fatto delle scelte sbagliate nel tuo percorso?
Mi sono pentito di alcune decisioni tattiche, dal punto di vista del gioco, legate a come mi vedevo giocare qualche anno fa e a come invece dovevo e devo giocare. Mi spiego: ho passato parecchio tempo ad allenarmi in Spagna, con un lavoro troppo improntato sulla solidità, sulla consistenza, quando invece ho capito successivamente che il mio tennis deve essere più brillante. Devo sfruttare le mie capacità: sveltezza, agilità, gioco di volo. Potessi tornare indietro, questa è una cosa che cambierei, impostando diversamente il mio tennis. E non è una questione di superfici: penso che il mio tennis si possa applicare bene ovunque.

Con che spirito guardi al 2018?
Sono contento del lavoro di preparazione che sto facendo, e per il prossimo anno non mi va di guardare molto lontano. È anche questo uno degli errori commessi nel 2016: ho iniziato a pensare un po’ troppo in là, e sono stato poco concentrato sul momento. Stavolta, invece, voglio occuparmi di un match alla volta, di un torneo alla volta. Pensare a ogni singola palla e nient’altro. Per il momento ho in testa solo i primi due tornei: il Challenger di Bangkok e le qualificazioni dell’Australian Open.

Se ti garantissero che così facendo arriveresti nei primi 100, saresti disposto a snaturare il tuo tennis e giocare come la gran parte dei tuoi colleghi?
L’obiettivo è andare in alto, quindi pur di riuscirci sarei anche disposto a non piacermi. Tuttavia, sono certo che giocando in un altro modo arrivare nei primi 100 sarebbe impossibile. Anzi, se mi trovo ancora qui, è anche perché a volte ho ancora difficoltà a mettere in pratica il mio gioco, a fare ciò che mi viene naturale.
Nel 2015 si diceva che Arnaboldi era un giocatore da grande palcoscenico: quelli che riescono a esprimersi meglio nei grandi tornei e fanno più fatica altrove. Sei d’accordo?
È vero. È positivo il fatto che il mio tennis mi permetta di giocare bene ad alti livelli, ma quando il livello dell’avversario si abbassa mi capita di fare più fatica a imporre il mio gioco. Devo imparare a fare sempre ciò che so di dover fare per vincere una partita, indipendentemente da chi mi trovo di fronte. Magari con certi avversari so di avere più margine e quindi mi prendo qualche rischio in meno, tendo a palleggiare di più. Il problema è che così facendo io perdo incisività e rendo meno, l’avversario sale di livello e gli equilibri diventano sottili. È così che ho perso alcuni match che non dovevo perdere.

Tredici semifinali Challenger in carriera, ma nessuna finale. Come te lo spieghi?
È successo un po’ di tutto (ride, ndr). Continuo a battere il chiodo, e spero prima o poi di riuscire ad andare oltre. Quando vado in campo riesco a non pensarci, però il record negativo è lì da vedere. Certo, già raggiungere 13 semifinali non è male. Mi impegnerò per trasformarle in qualcosa di più.

Negli ultimi anni si è visto un Arnaboldi che tende a lasciarsi andare di più, in campo e fuori. Da dove parte questo cambiamento?
Da un lavoro fatto con Roberto Cadonati su me stesso, sulla persona in generale. E anche da una mia volontà di essere un po’ più aperto. Caratterialmente sono un ragazzo che tende a isolarsi, e il fatto di aver trascorso tanti anni in Spagna, lontano dall’Italia e dal nostro ambiente, aveva accentuato questa cosa. Ma ora l’ho superata. Mi fa piacere relazionarmi con le persone, e mi fa piacere che la gente se ne sia accorta.Tanti giocatori si appoggiano alla figura del mental coach, ma tu sei stato uno dei primissimi a portarlo con te nei tornei. Cosa riesce a darti più di un normale allenatore?
Noto che molti tendono a nascondere questa figura, e secondo me definirlo mental coach non è nemmeno corretto. La parola giusta è psicologo. Una persona non frequenta uno psicologo solo quando ha dei problemi, ma lo può fare anche con l’obiettivo di una crescita personale. Abbiamo tutti bisogno di capire meglio noi stessi. Ho pensato di portare Roberto con me ai tornei non solo perché mi potesse aiutare su un singolo match, con dei lavori mirati sulla concentrazione, ma anche su un percorso di crescita. Sia per l’Andrea tennista sia per la persona. Lui entra in campo insieme a noi, parliamo, ci confrontiamo. Sono soddisfatto di quanto fatto, e se potessi tornare indietro inizierei prima.

Nel tennis azzurro è arrivato un nuovo Arnaboldi, tuo cugino Federico. È uno dei giovani italiani più promettenti, che rapporto avete?
Più che da cugini, direi che il nostro è un legame quasi fraterno. Ci confrontiamo, lui mi chiede tante cose, si fa consigliare, mi fa piacere. Credo di avere l’esperienza per poterlo aiutare. Secondo me ha un potenziale enorme. Fra giocare bene a tennis e vincere le partite c’è differenza, ma Federico è molto giovane (è nato nel 2000, ndr) e credo possa fare bene. Gli consiglio vivamente un percorso sulla persona: capire come funzioniamo è un passaggio vitale. Prima lo si capisce e meglio è. Per il resto gli ho detto di continuare a fare ciò in cui crede, senza freni.

Fino a metà 2015 il record di match maschile più lungo al meglio dei 3 set era di Roger Federer, oggi è di Andrea Arnaboldi. Che effetto fa?
Me lo godo, e mi fa molto piacere. Anche perché la partita l’ho vinta io. Mi capita spesso che la gente me lo ricordi, non solo in Italia. Diciamo che per ora è il momento più alto della mia carriera.

Ti piacerebbe essere ricordato per quello, o punti più in alto?
Diciamo che preferirei essere ricordato per altro. È stato un bel momento, anche perché poi mi sono qualificato e ho superato il primo turno, sempre con dei match maratona. Lì mi sono sentito pronto per il salto di qualità, l’ho percepito, invece non ce l’ho fatta. Me ne sono reso conto sul serio a fine 2016: ci ho riflettuto e ho capito che una grande chance se n’era andata. Ma ora voglio andare a riprendermela.