Se l’Italia è tornata ad avere un top-15 che mancava dai tempi di Barazzutti, il merito è anche di Josè Perlas. Fabio Fognini l’aveva ingaggiato per entrare fra i primi 20 e vincere un titolo ATP: hanno fatto meglio, ma forse non abbastanza. Il coach spagnolo ci ha raccontato i cinque anni vissuti al suo fianco, fra soddisfazioni, momenti difficili e quel rimpianto che porterà dentro per sempre.MILANO – Portare sulle spalle la fama di quello che non sbaglia (quasi) mai un colpo non dev’essere semplice, e lo è ancora meno sapersela costruire. Ciò che invece di complicato ha ben poco è scoprire come Josè Perlas ci sia riuscito. Basta trovarlo alle 7 di un sabato sera di novembre, dentro a un umido pallone pressostatico del Centro Sportivo Pavesi di Milano, a preparare con un paio di sparring gli esercizi per la sua lezione del giorno dopo, inserita nel programma del diciottesimo International Tennis Symposium. Potrebbe fregarsene, tanto è Perlas. Invece ci tiene tantissimo, perché è Perlas. Spiega, si sbraccia, ride ma non perde mai la concentrazione, e prima di lasciare andare i ragazzi che lo aiuteranno a illustrare “il suo coaching professionistico” (questo il titolo dell’intervento), ne ferma uno e passa alle raccomandazioni: “mangia bene, dormi bene e niente festa, che domani ti voglio freschissimo”. Come fosse un secondo padre, proprio il modo in cui l’ha definito il suo “figlioccio” Fabio Fognini nel ringraziarlo per i cinque anni passati insieme, fra fortune alterne. Il ligure l’ha ingaggiato nel novembre del 2011, da numero 48 del mondo, per cercare di dare una svolta alla sua carriera, e l’ha lasciato nel novembre del 2016, da numero 49. Ma in mezzo la svolta c’è stata: ingresso nei primi 30 e poi su fino al numero 13, più quattro titoli ATP. Il problema è che è durata meno del previsto, e quella top ten che il 56enne coach di Barcellona ha collezionato con Moya, Costa, Coria, Ferrero, Tipsarevic e Almagro, con Fognini non è arrivata. E non arriverà.
Partiamo dalla fine: come mai Fabio Fognini e Josè Perlas non lavoreranno più insieme?
Io sarei andato fino alla fine del mondo con lui, sia per quanto credo nel giocatore sia per il rapporto stupendo con la persona che si è creato in cinque anni di lavoro, una collaborazione piuttosto lunga per gli standard del tennis. Siamo sempre andati avanti di anno in anno, a me piace così perché credo sia lo spazio giusto per capire se le cose stanno funzionando, e quando dopo lo Us Open mi ha chiesto che idee avessi per il prossimo anno, gli ho detto in maniera molto spontanea che sarei andato avanti volentieri, cercando di ritrovare l’impegno e il grado di coinvolgimento dei primi anni. Un aspetto secondo me fondamentale per lavorare con chiunque. Fabio ha sentito che sarebbe stato difficile, e dopo una settimana di riflessione mi ha detto che voleva provare a cercare nuovi stimoli e nuove motivazioni. È una decisione comprensibile, ragionata e rispettabile, che ci ha portato a separare il nostro cammino professionale. Ma quello umano non cambierà di una virgola.
Negli ultimi cinque anni ci ha passato più tempo di chiunque altro. Com’è veramente Fabio?
È una persona intelligente, che sa perfettamente ciò che vuole e come raggiungerlo. A volte capita che la gente, dall’esterno, si faccia l’idea di una persona strafottente, ma quella è solamente una corazza. Credo abbia mostrato all’Italia chi sia veramente e cosa sia capace di fare, e non solo a livello individuale, dove ha vinto quattro tornei ATP e uno Slam di doppio. Ma soprattutto in Coppa Davis: normalmente i giocatori con meno qualità in nazionale fanno molta fatica, mentre lui ha mostrato il suo livello migliore. Più di una volta si è preso la squadra in spalle e l’ha trascinata: questo dimostra che è capace di gestire pressioni e responsabilità. La difficoltà è affrontarle giorno dopo giorno, e dare continuità a quel livello di gioco.
Quando Fognini è salito fino al n.13, pensava potesse entrare fra i primi 10?
Ovviamente, mancavano pochissimi punti (una settimana furono solamente 180, ndr).
Cosa è mancato?
Continuità.
Nient'altro?
Nient’altro. Ha passato un momento in cui doveva digerire la situazione e farla sua. Doveva capire che non era fra i primi 15 del mondo solo perché lo diceva la classifica, ma perché aveva raggiunto quel livello. Aveva bisogno di continuità, per assestarsi in quella zona di classifica e poi iniziare a guardare ai primi dieci. Seguendo quella progressione si poteva fare. Magari non il mese dopo, ma nel giro di un anno al massimo. Invece ne sono passati due e mezzo.
Appunto. Qualche rimpianto?
Mi resta la frustrazione di non essere riuscito a compiere il passo successivo. L’aspetto più faticoso è stato convincerlo che fosse in grado di fare certe cose, ci sono riuscito solamente a sprazzi. E alla fine non ho raggiunto il mio obiettivo. Il suo sì: voleva essere fra i primi venti e ci siamo riusciti. Ma il mio era aiutarlo a fare un piccolo passo in più, arrivare nei primi dieci, e non ne sono stato capace. Non soltanto io: è un dispiacere che devo condividere con tutto il mio team. A volte non si riesce a raggiungere certi traguardi a causa dell’età e del fisico, ma se non hai problemi…
Due anni e mezzo dopo, come riassume quel periodo in cui Fabio ne ha combinate un po’ troppe?
Stava filando tutto liscio: dopo un primo anno per conoscerci e formare la base su cui lavorare, e un secondo per rafforzare il progetto, i risultati stavano arrivando. Era come un film, scena dopo scena. E il livello per stare nei primi 10 era sempre più vicino, come dimostrato a più riprese. Poi a causa di un insieme di tante situazioni nuove da conoscere e alle quali abituarsi, e delle aspettative di un intero paese, c’è stato uno scatto negativo. Fabio ha faticato a digerire la nuova dimensione e il suo percorso si è complicato tantissimo, molto più del solito. Poi riprendere il cammino giusto non è stato semplice. Il livello di gioco è tornato importante nel 2015, la difficoltà è mantenerlo a lungo.
Al di là di tutto, il miglior Fognini è arrivato nei 5 anni con Perlas. Quali sono i suoi meriti?
Solo aver fatto il mio lavoro, lo stesso che ho fatto per tanti anni e con tanti giocatori. Si è solo trattato di applicare anche con Fabio ciò che avevo imparato in precedenza. Credo di riuscire bene ad adattarmi ai differenti tipi di giocatori e di personalità, a mettermi in sintonia con loro e trovare una strada comune. Nessuno si presenta da un giocatore col libro sotto il braccio: l’importante è capire e farsi capire. Io ci provo sempre al massimo, ma poi la differenza la fa il giocatore. In base a quanto riesce a seguire e applicarsi.
Recentemente si è anche visto un Fabio più tranquillo in campo.
È sicuramente un aspetto positivo, non tanto per la sua immagine, quanto perché ne beneficia il suo tennis, a livello di concentrazione. Contro certi giocatori basta farsi scappare un paio di game per compromettere una partita. Da questo punto di vista c’è stata maggiore continuità, ma è anche vero che quest’anno Fabio ha giocato meno, sia a causa dello stop per l’infortunio al costato sia per il matrimonio. L’obiettivo è diventato quello di salvare la stagione, quindi c’era meno tensione del solito. L’ha fatto molto bene, chiudendo comunque fra i primi 50, ma senza lo stress che si viene a creare quando un giocatore si sente bene, e quindi si pone obiettivi importanti. Diciamo che è stato meno esigente con sé stesso.
Quali sono gli aspetti complicati per un coach di Fognini?
La parte più complicata, per me, è stata l’inizio: trovare insieme la giusta direzione. Ma poi ce l’abbiamo fatta. Mi dispiace solo non essere arrivati oltre. Di solito quando le cose vanno bene si chiede sempre qualcosa di più. Lui non l'ha fatto, era soddisfatto di dove era arrivato. In certi momenti io volevo di più, io chiedevo di più, ma a lui la mia richiesta è costata parecchio.
Ha allenato tanti tennisti di altissimo livello. Fognini è stato il più difficile da gestire?
No. Il più difficile è stato Guillermo Coria. Fabio è una persona molto estroversa, con cui si può comunicare senza problemi. Coria invece era molto introverso, e diventava difficile mantenere un dialogo costante.
Fabio è legatissimo alla sua famiglia e ha tante persone che gli girano intorno. Può essere un problema?
Non c’è nulla di fuori dalla normalità. È naturale che una famiglia voglia il bene di un figlio e viceversa. Quello che può diventare pericoloso è se un giocatore prova a raggiungere un obiettivo per fare contenti gli altri e non sé stesso. Fabio ha cercato di rendere felice la sua famiglia, chi gli stava accanto, i suoi amici, la stampa italiana e tutto il paese. Una grande percentuale della sua felicità arrivava da fuori e troppo poca da dentro, da sé stesso. Ma mettere d’accordo tutti è impossibile, gliel’ho detto un sacco di volte.
L’arrivo di Flavia nella sua vita ha cambiato qualcosa?
Secondo me no. Ho visto solo un Fabio innamorato, come nella nostra vita è capitato a chiunque.
Fognini con Perlas è cresciuto. E Perlas è cresciuto con Fognini?
Sì. In determinati aspetti mi ha permesso di esprimere di più le mie capacità rispetto a quanto chiesto da altri giocatori allenati in passato. Con lui ho imparato cose nuove.
Il meglio di Fognini è passato o deve ancora venire?
Sono già passati oltre due anni dai suoi migliori risultati, ma penso che se Fabio riuscisse a trovare i nuovi stimoli che sta cercando, per porre tutto il suo impegno negli allenamenti, nel lavoro e nel nuovo progetto, possa fare anche meglio. I margini per migliorare ci sono. Ne sono convinto.
Fabio le ha chiesto consigli su chi rivolgersi come nuovo allenatore?
No.
Pare sia in arrivo Franco Davin. Che ne pensa?
È un collega che rispetto molto, con cui ho un buon rapporto sia personale sia professionale. Ha lavorato con gente di alto livello, e credo sia perfettamente preparato per dare a Fabio ciò di cui ha bisogno. Il passo fondamentale deve essere quello di trovare la giusta simbiosi. Franco sa cosa deve fare, e Fabio anche. Se le due idee riusciranno a incontrarsi, il rapporto può funzionare perfettamente.
E il futuro di Perlas?
Non vedo motivi per fermarmi: la mia vita privata va bene, mio figlio studia, mia moglie lavora, e io per tutta la vita ho sognato di allenare a questi livelli. Quindi non voglio smettere. Mi sento preparato, fresco e pronto per aiutare altri giocatori. La mia idea resta sempre la stessa: nessun merito, ma tanta voglia di guidare un team verso dei risultati. Mi piace vedere crescere i giocatori, sentire che stanno migliorando, cosa che grazie a Dio, chi più chi meno, mi è sempre successa con tutti i tennisti allenati. La gente pensa che io lavori solamente con i top player, ma non è vero. Alcuni sono diventati top player insieme a me. Non sta scritto da nessuna parte che non si possa partire dalla seconda fascia e arrivare nella prima.
Qualcosa che la frena?
Solitamente i giocatori di primissima fascia hanno l’esigenza di trovare un coach che vada ad allenarsi con loro in un determinato posto, mentre io vorrei fare il contrario. Preferisco stare a Barcellona, e portare lì i miei allievi. Per i campionissimi diventa difficile. Ma sono pronto ad andare avanti.
Con chi?
Ho ricevuto varie offerte, e una è molto più avanzata delle altre. A breve ne sapremo di più. (Infatti si è saputo: il suo nuovo allievo sarà il serbo Dusan Lajovic, numero 95 ATP).
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