Il serbo batte Murray 6-1 7-6 e si aggiudica il torneo di Miami per la terza volta. E’ un successo importante per la sua carriera, ma è mancato lo spettacolo.
Novak Djokovic ha vinto l'11esimo Masters 1000 in carriera

Di Riccardo Bisti – 2 aprile 2012


Ci sarà tempo e modo per celebrare la vittoria di Novak Djokovic, giusto vincitore a Miami e solido numero 1 del mondo. La finale di questo torneo, tuttavia, lascia l’amaro in bocca. Davvero è questo il tennis che vogliamo? Quello che emoziona, appassiona? Il 6-1 7-6 con cui il serbo si è imposto su Andy Murray è stata una delle finali meno appassionanti degli ultimi anni. I due hanno un tennis troppo simile, troppo muscolare, troppo solido. Gli scambi sono tutti uguali, non c’è spazio per la fantasia, per il guizzo, per lo spunto. Quando uno dei due è costretto a giocare in slice sono dolori. Murray lo tira un po’ meglio, ma poi combina pasticci con gli altri colpi. Il backspin di Djokovic è brutto da vedere, ma almeno resta in campo. Le superfici sono troppo uguali (lente), le palle sono troppo lente, i nuovi attrezzi sembrano più fucili di precisione che racchette…il risultato è una standardizzazione che non può andare bene. Giocatori come Murray e Djokovic sono preziosi, vanno coccolati e protetti. Ma quando giocano tra loro è difficile fuggire agli sbadigli. Se poi uno dei due gioca un pessimo primo set, come accaduto a Murray, lo spettacolo è ancora più deprimente. Mai come in questo 2012 accogliamo con piacere l’arrivo della terra battuta, ormai la superficie più spettacolare. Persino i tennisti-robot devono inventarsi qualcosa, a partire dalle smorzate e dalla ricerca dello schema vincente.
 
Djokovic si è imposto a Miami per la terza volta. Aveva già vinto nel 2007 (in finale su Canas, quando si giocava ancora al meglio dei cinque set) e lo scorso anno su Rafael Nadal. Questo successo vale molto, perché profuma di restaurazione dopo il brutto periodo post Australian Open. A Dubai aveva perso da Murray, a Indian Wells addirittura da Isner…ancora più dei risultati, non convinceva il livello. In verità non ha entusiasmato nemmeno a Miami, dove ha trionfato senza cedere un set ma senza mai dare l’impressione di essere invincibile. Gioca bene i punti importanti, li vince (quasi) tutti e il gioco è fatto. Ma non è lo stesso Djokovic del 2011, uno schiacciasassi inarrestabile. Murray ha confermato di soffrirlo psicologicamente, anche se nelle finali erano 4-4. Lo scozzese è rimasto ostinatamente in partita nel secondo set, cancellando palle break in quattro turni di servizio su sei, ma non ha mai dato l’impressione di potercela fare. In tutto il match ha avuto una sola palla break (nel primo set), e i suoi turni di battuta duravano il doppio di quelli di Djokovic. Il simbolo di questa partita, e più in generale della differenza tra i due, è stato il tie-break. Murray ha vinto uno spettacolare scambio che lo ha portato sul 2-2. 25 colpi a ritmo indemoniato, chiusi da una smorzata fortunosa ma vincente. Entrambi erano esausti, ma un punto del genere avrebbe caricato di adrenalina chiunque. E invece Murray che combina? Commette un doppio fallo mortale, decisivo col senno di poi. Da allora non ci sono più stati mini-break ed è finita 7-4, con Djokovic che ha giocato alla grande i successivi quattro punti al servizio: due combinazioni servizio-dritto, un ace e uno scambio ben condotto fino all’errore definitivo di Murray.
 
Per il serbo è l’undicesima vittoria in un Masters 1000 (ancora lontanuccio dalle 19 di Nadal e Federer), la trentesima in carriera. Ma soprattutto è balsamo psicologico in vista di un periodo in cui ha una montagna di punti da difendere. Da qui a Wimbledon si giocherà la leadership mondiale, che è ancora solida ma che potrebbe traballare da un momento all’altro. Adesso ha bisogno di ritemprarsi, allenarsi sul rosso e presentarsi al massimo a maggio. Giocherà a Monte Carlo, ma ciò che conta è essere al top per Madrid, Roma e Parigi. I serbi gli perdoneranno l’assenza nel prossimo weekend di Davis, dove Tipsarevic e Troicki saranno chiamati al difficile compito di espugnare la Repubblica Ceca: in questo momento “Nole” si gioca una fetta di stagione, di carriera e forse anche di storia. Imporsi a Miami, facendo valere la leggere del numero 3 (terza vittoria in Florida, trentesima in carriera), è il modo migliore per tornare in Europa. Per lo spettacolo, beh, dobbiamo sperare nel mattone tritato. Altrimenti le grida di dolore si faranno sempre più frequenti, e non saranno solo quelle degli specialisti.