Si chiama Olga, con un cognome impronunciabile per i latini: Barabanschikova. In Italia, al massimo, arrivavano a Barabàn. Il resto no, e in effetti poco importava…

MISSING   di Federico Ferrero

Si chiama Olga, con un cognome impronunciabile per i latini: Barabanschikova. In Italia, al massimo, arrivavano a Barabàn. Il resto no, e in effetti poco importava. Faceva servizi fotografici, Olga, concedeva interviste in serie, presenziava a party e serate di gala 

Il gioielliere l’aveva chiamato l’occhio di Satana: un diamante delicatamente incastonato nell’ombelico, che di casto aveva pochissimo, messo lì per stuzzicare i pensieri più indiavolati. Lei lo portava con naturalezza, a pagamento si intende, e lo sfiorava nei momenti di difficoltà, come per chiedere aiuto al suo Aladino con le corna. Incredibile come i fenomeni di carta brucino alla svelta, perché questa ragazza oggi è finita giù nel più profondo anonimato, e il suo nome non dice niente a nessuno, ma dieci anni fa la conoscevano tutti.

Si chiama Olga, con un cognome impronunciabile per i latini: Barabanschikova. In Italia, al massimo, arrivavano a Barabàn. Il resto no, e in effetti poco importava. Faceva servizi fotografici, Olga, concedeva interviste in serie, presenziava a party e serate di gala. Ogni tanto parlava anche di tennis perché, di mestiere, giocava proprio a tennis. E neanche male: a diciassette anni, nel ’97, centrò il terzo turno agli Us Open e finì il primo vero anno da professionista nelle prime sessanta del mondo.

Era cresciuta a Minsk, in Bielorussia, ma aveva scelto Londra per perfezionare le sue doti ai comandi di un signore, tale Nick Brown, che fu eroe per un giorno quando Goran Ivanisevic regalò all’allora numero 600 (come solo lui, Kafelnikov e Safin sapevano fare) un match a Wimbledon.

Alla Barabanschikova toccò qualche ora in più di celebrità, benché fosse più brava a proporsi come bellona di quanto fosse bella veramente, e risultasse pure sopravvalutata come atleta: al massimo delle sue forze, nel marzo del 1998, toccò un discreto best ranking – numero 49 del mondo – e a parte un ottavo di finale a Wimbledon 2000, e una finale del Wta di Istanbul persa contro la Nagyova per 11-9 al tie-break decisivo, non si ricorda altro.

Le copertine, quelle sì: spigliata, un po’ forte di fianchi ma maliziosetta, ridanciana, solare: Barabanschikova fu, per qualche mese, un argomento per le penne stanche di inventare fidanzati a una Kournikova ancora loliteggiante e sempre in cerca di un personaggio per convincere i caporedattori a concedere uno spazio in più al dimenticatissimo tennis rosa. Arrivò addirittura Hugh Hefner, il marpione di Playboy, a offrirle 200.000 dollari per posare come mamma l’aveva fatta. Lei ringraziò ma preferì lasciar perdere: in costume sì, senza veli no.

La favola, però, finì presto. Nel mese di aprile 2001 Barabàn si infortunò al tendine d’Achille e perse, insieme alla possibilità di farsi un nome nel tennis, tutto il suo carisma. Rimase fuori dal circuito ben più di quanto il male non la costringesse, e ne approfittò per riscuotere il credito di successo, soldi e fama accumulato grazie alla grancassa di giornali e tv. “Con la scusa dell’anno fuori dal Tour – avrebbe raccontato anni dopo – ho partecipato a feste e ricevimenti accumulandone a sufficienza per tre vite”.

Dopo l’anno sabbatico smaltì la sbornia, riprovò col tennis e, in dodici mesi, vinse una partita. Le interviste non arrivavano più, del resto di lei si sapeva tutto: ora era tenuta a vincere, a giustificare sul serio l’attenzione. L’anno successivo sembrò più incline a ritornare con piglio deciso a fare il suo lavoro: lasciata la cupa Londra, dove viveva a casa di Nick Brown e si annoiava a morte, tornò a Minsk prendendo a lavorare con Vladimir Perko. Qualche risultato, lì per lì, arrivò. Con la disastrosa classifica che si ritrovava si qualificò per Sydney, poi batté Conchita Martinez ed Elena Bovina.

Sembrava potesse essere l’inizio di qualcosa, invece era l’addio. Barabàn, di lì in poi, fece solo patatràc e non vinse più mezza partita, se non in qualche Itf dove ancora le riusciva di strappar via una testa di serie e incrociare la racchetta con avversarie modeste. Cinque anni fa la resa: vinse sei partite di fila all’Itf di San Pietroburgo, sculacciò una ragazzina di nome Chakvetadze (oggi n.18 Wta), perse in semifinale contro la lucky loser Anastasia Yakimova e quella fu sua ultima partita da professionista.

Olga era nata il 2 novembre 1979, ciò significa che doveva compiere venticinque anni quando la via del tennis le disse no, e definitivamente. Difficile da digerire. La botta, infatti, si fece sentire, tanto che per un bel po’ fu davvero missing: di lei, nessuna traccia.

Poi è tornata. Abbandonati i campi, si è data al canto: in Bielorussia ha ottenuto un certo seguito, e ha presentato lo scorso anno la finale dell’Eurovision Song Contest, vinto proprio dal suo Paese. Ha lavorato col ministero dello sport bielorusso, è fan dichiarata del presidente Lukaschenko, un comunista che piace moltissimo ai suoi, pochissimo agli Stati Uniti e che ha sempre seguito il tennis con trasporto, un po’ come faceva Boris Eltsin (ma bevendo decisamente di meno).

Ecco, il tennis: dopo la crisi di rigetto da frustrazione, Olga non ne voleva più sapere. Troppo difficile dimenticare gli Slam, i flash, gli amorazzi veri o presunti strillati dai tabloid sportivi. Aveva un poco ripreso i contatti con il suo sport, tanto da aver accettato di fare da capitano pro tempore alle sue ex colleghe di Fed Cup, ma ora la sua vita è la musica. Con Hugh Hefner ancora arzillo e alla guida del suo storico magazine, non è detto non si sia pentita di quel singolare e pudico ‘no’.