Il tedesco ha regalato pochi termini al linguaggio universale. Tuttavia, c'è un concetto che trova nella dizione germanica una resa molto efficace. Nel tennis lo abbiamo sentito per la prima volta nel 1985, quando Boris Becker vinse Wimbledon in età da foglio rosa. “Wunderkind”, bambino prodigio. Da allora sono passati 33 anni e Alexander Zverev è già grandicello, ma il trionfo al Masters lo consacra come personaggio mainstream. Battendo Novak Djokovic a Londra, Sascha ha cambiato la sua percezione. E allora, visto che è ancora in età da Next Gen, possiamo prendere in prestito il termine. In fondo, l'ultimo tedesco a vincere il Masters era stato proprio Becker. Per la prima volta, il tennis sembra aver trovato un degno erede di una generazione d'oro che negli ultimi dieci anni ha fatto razzia di trofei. Da quando la carta d'identità di Roger Federer, Rafael Nadal e Novak Djokovic ha iniziato a ingiallirsi, molti si sono domandati se sarebbe nato qualcuno in grado di batterli prima dell'unico avversario davvero imbattibile: il tempo. Adesso, forse, abbiamo trovato la risposta. Nonostante la crescita repentina, da quando è stato identificato come “The Next Big Thing”, lo spilungone di Amburgo ha patito il peso delle aspettative. Non ha certo aiutato il fatto che provenisse da un paese di grande tradizione, desideroso di ritrovare un grande campione. Negli anni 90, la Germania era il cuore pulsante del tennis mondiale. Con Boris Becker e Michael Stich, più Steffi Graf tra le donne, il seguito era enorme e i tornei spuntavano come funghi. Non è un caso che le ATP Finals siano nate proprio in Germania (fino al 1989 si giocava al Madison Square Garden di New York, e non era sotto l'egida dell'associazione giocatori).
SULLE ORME DI MISCHA, MURRAY E DJOKOVIC
Gli anni d'oro sono finiti, ma la Germania ha continuato ad essere un mercato importante. Hanno prodotto diversi giocatori, ma nessuno ha mai acceso fantasie e aspettative come Zverev. Figlio di un ex giocatore sovietico, è nato in Germania perché la sua famiglia si era trasferita nel 1991, in piena dissoluzione dell'URSS. Il fratello maggiore Mischa è nato in Russia dieci anni prima di lui, e in effetti sono profondamente diversi. Da bambino era molto bravo nell'hockey su prato, ma il tennis era nel suo destino. Sin da piccolo ha seguito le orme del fratello, coetaneo di Murray e Djokovic. Li ha conosciuti quando erano ancora adolescenti, quando nessuno poteva immaginare che sarebbero diventati figure importanti per la sua carriera. Dallo scozzese ha ereditato gli elementi chiave dello staff tecnico: prima Jez Green, guru della preparazione atletica che sta facendo un capolavoro con un fisico un po' troppo asciutto per uno sport così muscolare. Adesso Sascha è vicino al top. E poi c'è Ivan Lendl, “iniziato” al coaching proprio da Murray. Dopo un lungo corteggiamento, Zverev è riuscito a ingaggiarlo. Che fosse un predestinato si era capito molti anni fa, quando è diventato numero 1 junior a 16 anni di età. Ma non era come Donald Young, che vinceva tutto tra i ragazzi e poi prendeva sberle tra i professionisti. Lui vinceva il miglior Challenger del mondo (Braunschweig) a 17 anni e poi arrivava in semifinale ad Amburgo. I risultati dell'estate 2014 lo hanno portato sotto l'occhio dei riflettori tennistici, ma lui ha continuato a crescere nel modo ideale: rapido e costante. Ha abbattuto il muro dei top-100 ATP nel 2015, poi l'anno dopo è entrato tra i primi 20. Risultati di rilievo, specie in un tennis sempre più anziano, con sempre meno spazio per i bambini prodigio, pardon, wunderkinds. Lo scorso anno, Zverev ha iniziato a vincere i grandi tornei, a battere i migliori. Poche settimane dopo aver abbandonato l'adolescenza, ha vinto il suo primo Masters 1000 a Roma, battendo in finale – guarda un po' – Novak Djokovic.
UNA MALEDIZIONE DA ABBATTERE
È diventato il primo nato negli anni 90 a vincere un Masters 1000: visto che è del 1997, è più un miracolo suo o un disastro di chi lo ha preceduto? Probabilmente una via di mezzo, ma poco importa. Tre mesi dopo avrebbe vinto a Montreal, battendo in finale Federer, e si è piazzato tra i top-5 ATP. Niente Next Gen Finals, perché la classifica gli consentiva di volare direttamente a Londra. Avrebbe fallito la qualificazione per le semifinali, mentre quest'anno ha vissuto la settimana della vita. Negli ultimi tornei non aveva ottenuto granché, ma si è comportato come fanno i campioni: è venuto fuori nel momento del bisogno. Adesso si concederà una vacanza alle Maldive in attesa di iniziare la preparazione per il 2019, l'anno in cui darà l'assalto ai tornei del Grande Slam. Mai oltre i quarti in 14 partecipazioni, rischia di farne un'ossessione. Anche per questo, ha scelto Ivan Lendl, il cui aiuto è stato fondamentale nella settimana londinese. “Ha analizzato il match perso contro Djokovic nel girone e mi ha detto cosa avrei dovuto fare di diverso – racconta – oggi sono stato più aggressivo, ho provato a colpire la palla in anticipo. Mio padre mi ha creato come giocatore, merita il massimo riconoscimento, ma l'esperienza di Ivan, sia dentro che fuori dal campo, è straordinaria". Ma adesso è il tempo di festeggiare il giorno che gli ha cambiato la vita. D'altra parte, non accadeva dal 1990 che un giocatore non battesse il numero 1 e il numero 2 del torneo, uno in fila all'altro. Quel signore si chiamava Andre Agassi, aveva 20 anni e mise in fila prima Becker e poi Edberg. Adesso il tennis festeggia il nuovo wunderkind, il ragazzone che cercherà di esorcizzare la maledizione del Masters: gli ultimi due vincitori (Murray e Dimitrov) hanno poi vissuto una cattiva stagione successiva. Lui non ci pensa neanche: “Djokovic e Federer saranno ancora gli uomini da battere, ma farò tutto il possibile per essere alla loro altezza. Sento che lo sto facendo, ma ci sono ancora molte cose da migliorare. Sono ancora giovane. L'anno prossimo spero di esprimere un tennis ancora migliore”. Più che un augurio, è una missione.